Antonio Martino è intervenuto su “Libero” oggi con l’articolo: “Se la crisi arriva non incolpate la globalizzazione”. Scrive Martino:
La crisi finanziaria in corso ha resuscitato vecchi miti duri a morire. Il primo, ed il più pericoloso, è che la crisi sia da imputare alla “globalizzazione”. I fautori di questa tesi non spiegano né cosa intendano per globalizzazione né perché essa sia responsabile degli attuali problemi. Globalizzazione diventa un termine magico col quale si spiegano senza fatica ed inappellabilmente tutti i mali dell’umanità: è perentorio, non lascia spazio a dubbi e fornisce una spiegazione istantanea e comoda di qualsiasi problema. In realtà, se ci chiediamo cosa debba intendersi per globalizzazione, perveniamo alla conclusione che essa non è la causa dei nostri guai né che il suo opposto ne offra una via d’uscita.
Globalizzazione è un termine moderno per un fenomeno antichissimo: da moltissimo tempo gli abitanti di Paesi diversi intrattengono relazioni economiche con reciproco vantaggio. La novità è rappresentata dalle dimensioni del fenomeno: grazie agli enormi progressi nei trasporti e nelle comunicazioni, gli scambi internazionali di beni, servizi e capitali sono cresciuti più rapidamente del reddito pro capite dei vari Paesi, ed è quasi certamente questa crescita che ha reso possibile quell’aumento diffuso del benessere nel mondo. Del resto, per comprendere i vantaggi arrecati dalla libertà dei rapporti economici internazionali basta considerare per un momento gli enormi danni che sono stati arrecati dai tentativi di impedirli. Com’è noto, la crisi finanziaria del 1929 venne trasformata in recessione dal comportamento della banca centrale americana che consenti il fallimento di un terzo di tutte le banche degli Stati Uniti. L’inevitabile recessione venne trasformata in una catastrofe senza precedenti dallo Smith Hawley Tariff Act del 1930 che introdusse tariffe doganali elevate su oltre 20.000 prodotti importati negli Stati Uniti. I paesi i cui prodotti erano colpiti da questi balzelli risposero con provvedimenti di ritorsione ai danni dei prodotti americani. Questa spirale protezionistica determinò una drastica contrazione degli scambi internazionali con danno enorme per le economie di tutto il mondo.
Un altro mito è che la crisi sia da imputare alla "finanziarizzazione" dell’economia: orrendo neologismo col quale si biasima ciò che non si capisce. Il gran numero di strumenti finanziari in uso nel mondo di oggi è incompreso dai più, si tratta di raffinati modi per proteggersi dal rischio e per diversificarlo. Tanto per fare un esempio banale, i contratti a termine (“futures”) servono al venditore per tutelarsi nei confronti del rischio che il prezzo del suo prodotto diminuisca, ed all’acquirente nei confronti di eventuali aumenti.
Dietro l’apparente complessità degli strumenti finanziari c’è spesso una realtà assai semplice. Dietro la diffidenza per la finanza moderna c’è inconsapevolmente anche un vecchio pregiudizio risalente al medioevo ed all’avversione per il denaro come strumento di arricchimento “illecito”. È un preconcetto che ritroviamo per esempio nella legislazione contro l’usura, nella religione islamica e la sua proibizione di concedere denaro a prestito con la corresponsione di un interesse, tutti atteggiamenti che se coerentemente tenuti avrebbero reso impossibile la nascita delle banche e del credito, che sono alla base del mondo moderno. E che questo vecchio mito sopravviva in Italia, il Paese che ha inventato la banca e la partita doppia, è davvero stravagante.
Diceva Oscar Wilde che chi distingue l’anima dal corpo non ha né l’una né l’altro; analogamente chi distingue l’economia monetaria (fasulla) dall’economia reale (vera) non conosce né l’una né l’altra. Economia reale ed economia monetaria non sono distinguibili per l’ovvia ragione che tutte le economie del mondo sono da millenni economie monetarie di scambio. Da quando l’umanità ha scoperto l’importanza della moneta non è mai esistita un’economia non-monetaria.
Il fondatore della prima “scuola di Chicago” Frank Knight sosteneva che «il guaio non è che la gente sa così poco di economia, il vero problema è che sa tante cose che sono del tutto sbagliate»! Non c’è alcun dubbio che questa osservazione sia ancora valida ad ottant’anni di distanza.
La crisi finanziaria in corso ha resuscitato vecchi miti duri a morire. Il primo, ed il più pericoloso, è che la crisi sia da imputare alla “globalizzazione”. I fautori di questa tesi non spiegano né cosa intendano per globalizzazione né perché essa sia responsabile degli attuali problemi. Globalizzazione diventa un termine magico col quale si spiegano senza fatica ed inappellabilmente tutti i mali dell’umanità: è perentorio, non lascia spazio a dubbi e fornisce una spiegazione istantanea e comoda di qualsiasi problema. In realtà, se ci chiediamo cosa debba intendersi per globalizzazione, perveniamo alla conclusione che essa non è la causa dei nostri guai né che il suo opposto ne offra una via d’uscita.
Globalizzazione è un termine moderno per un fenomeno antichissimo: da moltissimo tempo gli abitanti di Paesi diversi intrattengono relazioni economiche con reciproco vantaggio. La novità è rappresentata dalle dimensioni del fenomeno: grazie agli enormi progressi nei trasporti e nelle comunicazioni, gli scambi internazionali di beni, servizi e capitali sono cresciuti più rapidamente del reddito pro capite dei vari Paesi, ed è quasi certamente questa crescita che ha reso possibile quell’aumento diffuso del benessere nel mondo. Del resto, per comprendere i vantaggi arrecati dalla libertà dei rapporti economici internazionali basta considerare per un momento gli enormi danni che sono stati arrecati dai tentativi di impedirli. Com’è noto, la crisi finanziaria del 1929 venne trasformata in recessione dal comportamento della banca centrale americana che consenti il fallimento di un terzo di tutte le banche degli Stati Uniti. L’inevitabile recessione venne trasformata in una catastrofe senza precedenti dallo Smith Hawley Tariff Act del 1930 che introdusse tariffe doganali elevate su oltre 20.000 prodotti importati negli Stati Uniti. I paesi i cui prodotti erano colpiti da questi balzelli risposero con provvedimenti di ritorsione ai danni dei prodotti americani. Questa spirale protezionistica determinò una drastica contrazione degli scambi internazionali con danno enorme per le economie di tutto il mondo.
Un altro mito è che la crisi sia da imputare alla "finanziarizzazione" dell’economia: orrendo neologismo col quale si biasima ciò che non si capisce. Il gran numero di strumenti finanziari in uso nel mondo di oggi è incompreso dai più, si tratta di raffinati modi per proteggersi dal rischio e per diversificarlo. Tanto per fare un esempio banale, i contratti a termine (“futures”) servono al venditore per tutelarsi nei confronti del rischio che il prezzo del suo prodotto diminuisca, ed all’acquirente nei confronti di eventuali aumenti.
Dietro l’apparente complessità degli strumenti finanziari c’è spesso una realtà assai semplice. Dietro la diffidenza per la finanza moderna c’è inconsapevolmente anche un vecchio pregiudizio risalente al medioevo ed all’avversione per il denaro come strumento di arricchimento “illecito”. È un preconcetto che ritroviamo per esempio nella legislazione contro l’usura, nella religione islamica e la sua proibizione di concedere denaro a prestito con la corresponsione di un interesse, tutti atteggiamenti che se coerentemente tenuti avrebbero reso impossibile la nascita delle banche e del credito, che sono alla base del mondo moderno. E che questo vecchio mito sopravviva in Italia, il Paese che ha inventato la banca e la partita doppia, è davvero stravagante.
Diceva Oscar Wilde che chi distingue l’anima dal corpo non ha né l’una né l’altro; analogamente chi distingue l’economia monetaria (fasulla) dall’economia reale (vera) non conosce né l’una né l’altra. Economia reale ed economia monetaria non sono distinguibili per l’ovvia ragione che tutte le economie del mondo sono da millenni economie monetarie di scambio. Da quando l’umanità ha scoperto l’importanza della moneta non è mai esistita un’economia non-monetaria.
Il fondatore della prima “scuola di Chicago” Frank Knight sosteneva che «il guaio non è che la gente sa così poco di economia, il vero problema è che sa tante cose che sono del tutto sbagliate»! Non c’è alcun dubbio che questa osservazione sia ancora valida ad ottant’anni di distanza.
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