Renato Brunetta ha pubblicato oggi su “Il Riformista” un articolo intitolato “Keynes riposi in pace”. Lo riporto qui come contributo per capire come la pensa Brunetta sui temi della crisi.
È vivo e ancora tra noi Keynes? No, è morto e lasciamolo riposare in pace, con il rispetto che dobbiamo ai grandi pensatori che hanno aperto nuove strade alla teoria ed alla pratica dell’economia. Evitiamo, soprattutto, di coinvolgerlo nel ripetersi, a livello di farsa, dello stantio dibattito sul ruolo dello stato, o della politica, in opposizione al mercato, frutto di una cattiva teoria e di una cattiva politica. Tanto per essere chiari, la crisi che stiamo attraversando è, innanzitutto, un fallimento della politica e non del mercato. E, infatti, lo stato, cioè la politica, che ha stabilito regole imperfette, o sbagliate, all’agire degli intermediari finanziari. E se lo ha fatto per ignoranza o scarsa comprensione dei meccanismi finanziari, non vediamo come la politica possa ergersi a giudice del mercato come meccanismo di allocazione e di utilizzo efficiente delle risorse. Se, invece, la politica non ha fissato le regole corrette perché “catturata” dagli interessi privati degli agenti sul mercato, siano essi i cosiddetti “gnomi” a capo del sistema bancario o altri interessi economici forti, ne traiamo ancor più la prova che non sempre lo stato e la politica interpretano gli interessi generali, gli interessi della stabilità e della crescita economica o delle fasce più deboli della popolazione.
2. - Ma non è solo lo stato “regolatore” ad avere mostrato insufficienza. Anche lo stato “sanzionatore” non ha brillato. Anzi, spesso, ha provocato disastri quando, esplicitamente o implicitamente, ha offerto garanzie tali da provocare un aumento del moral hazard, cioè della propensione al rischio, degli operatori economici, persuasi che lo stato avrebbe impedito, in ultima istanza, anche la sanzione del mercato in caso di insuccesso delle proprie azioni. Fatto, questo, che puntualmente sta avvenendo, ponendo il non nuovo dilemma tra la conferma di aspettative non virtuose, con l’invio di segnali sbagliati agli operatori per il futuro, e l’esigenza di far fronte ad una crisi sistemica con un intervento forte e responsabile dello stato.
3. - Anche dal punto di vista macroeconomico l’attuale crisi non è figlia del laissez faire, del non intervento, ma al contrario di una politica interventista di tipo keynesiano. Mentre Milton Friedman, considerato il principale fautore del capitalismo e del mercato, predicava di mantenere stabile la crescita dell’offerta di moneta, e quindi anche della liquidità creata dalle banche, era Keynes, peraltro anch’esso sostenitore del capitalismo e del mercato, che predicava, sotto determinate condizioni di capacità produttiva inutilizzata, la creazione di liquidità necessaria a stimolare la domanda aggregata. Se, quindi, si vuole semplificare in modo provocatorio l’analisi, possiamo affermare che la politica economica americana dell’ultimo decennio è stata certamente ispirata più dai precetti keynesiani che da quelli di Milton Friedman. Per essere più precisi, la politica monetaria espansiva è stata utilizzata da Greenspan in modo spregiudicato, e non certo in conformità del pensiero liberista della scuola di Chicago, per sostenere proprio la domanda aggregata. Prima, alla fine del secolo scorso, essa ha accompagnato la bolla speculativa della new economy. Poi, dopo lo scoppio di questa bolla ed il conseguente crollo della ricchezza finanziaria degli americani, è stata utilizzata per compensare queste perdite con un aumento della ricchezza immobiliare. Forte liquidità e bassi tassi di interesse sono stati, infatti, la base sia del formarsi della bolla immobiliare sia dell’uso eccessivo della leva finanziaria da parte del sistema creditizio. Il fine era il sostegno della domanda interna ed in particolare dei consumi degli americani, fortemente dipendenti dalla ricchezza. La politica monetaria espansiva di Greenspan ha, in tal modo, assicurato un lungo periodo di prosperità agli americani, anche se la crisi finanziaria e la recessione attuale ne sono, in parte, la conseguenza. Si dovrebbe, inoltre, ricordare che anche la bolla speculativa della new economy ebbe il merito di far confluire capitali in abbondanza ad un settore che avrebbe cambiato il mondo e la sua economia, anche se molti risparmiatori incauti ne pagarono il prezzo. Ma non si deve dimenticare che l’idea keynesiana secondo la quale la politica monetaria espansiva, sostenendo la domanda aggregata, avrebbe creato il reddito e quindi, ex post, anche il risparmio necessario agli investimenti, non sembra aver funzionato negli Stati Uniti, a causa di una propensione al risparmio prossima allo zero.
4- - Vi è un altro tassello del puzzle, che ci mostra come dietro il mondo che alcuni pensano sia finito non ci sia solo mercato ma mani molto visibili. L’economia americana ha trovato il risparmio necessario, che non riusciva o si rifiutava di creare in casa, in Cina, ed in altri paesi emergenti, ove il governo non sottoponeva il tasso di cambio, cioè il valore della sua moneta, alla disciplina del mercato valutario, frenava salari e domanda interna, e accumulava mediante surplus commerciali riserve valutarie, prevalentemente in dollari, e le impiegava in titoli americani. Cambi amministrati e controllo del movimento dei capitali non sono il regno del libero mercato internazionale o del mercato selvaggio. Senza queste mani molto visibili gli squilibri americani, fondati sul deficit interno ed estero, non sarebbero potuti crescere tanto e così a lungo.
5. - Tutto questo è per dire che, seguendo il metodo di Keynes e non banalmente ricette coniate in un mondo che non c’è più, è necessario affrontare con umiltà intellettuale la crisi attuale, per affinare la capacità esplicativa della teoria economica, che proprio dal confronto con le sfide della storia ha sempre trovato stimolo per i suoi progressi, senza rinchiudersi all’interno di scuole di pensiero ideologiche. D’altra parte, in un momento in cui il richiamo allo stato ed alla politica prevale, per la paura che la crisi possa avvitarsi in modo incontrollabile se affidata alla cura degli animal spirits che operano sul mercato, essa rimane incerta e dubbiosa dopo aver reclamato la primazia. Il problema che abbiamo di fronte non è quello di una maggiore presenza della politica, ma di quale politica. Il problema attuale non è il richiamo all’intervento pubblico, magari sotto la bandiera simbolica di un nuovo keynesismo, ma come strutturare l’intervento pubblico, con quali strumenti e con quali finalità. E come, soprattutto, affrontare l’emergenza senza correre il rischio di spostare in avanti i problemi che oggi si manifestano. Come si è detto sopra, il tentativo di Greespan di eliminare il ciclo dall’economia americana ha prodotto risultati in parte imprevisti. Un esempio può chiarire come il breve periodo possa a volte confliggere con il medio e lungo periodo. Di fronte ad una emergenza alimentare in paesi in via di sviluppo, di fronte ad una catastrofe umanitaria, la risposta è in genere quella di inviare cibo e derrate alimentari attraverso i programmi di aiuto internazionali. Ma non è un mistero che questi interventi contribuiscono a distruggere i mercati agricoli locali ed a porre le basi per una successiva carestia.
6. – L’esempio può sembrare forte, ma questo è uno dei problemi, non ideologici, che si pongono di fronte ai governi che debbono cercare di impedire che la crisi finanziaria si trasferisca in modo catastrofico nell’economia reale. Se guardiamo all’Europa e poi all’Italia, i problemi non sono più semplici che negli Stati Uniti. Ed ancor più che negli Stati Uniti il richiamo a Keynes ci sembra fuorviante. In Italia, ed in Europa, abbiamo avuto troppo poco mercato ma abbiamo avuto anche una latitanza della politica economica. Schiacciati da un enorme debito pubblico, nascosti dietro i veti europei perché incapaci, senza il richiamo all’autorità superiore, di contrastare tutte le corporazioni che hanno saccheggiato l’Italia facendone il paese con il maggior grado di disuguaglianza ed il minor tasso di crescita tra i paesi europei comparabili al nostro, la politica italiana non ha dato per lungo tempo grande prova di sé.
7. - Ben vengano, quindi, eventuali apparenti incertezze sul da farsi. La necessaria prontezza di risposta dei governi non esime dalla riflessione. Risposte od annunci affrettati sono sottoposti ad una immediata attenta valutazione dei mercati, che è poi la valutazione delle imprese e delle famiglie risparmiatrici e consumatrici. Se le risposte sono solo mediatiche o palesemente insufficienti, esse non incidono nelle aspettative e, quindi, nei comportamenti da cui dipende l’uscita dalla crisi, ma al contrario possono aggravare le crisi di sfiducia.
8. - Probabilmente, in Italia, l’azione pubblica nel momento attuale dovrebbe seguire tre direttive principali. Primo, un’azione di assistenza per chi è colpito dalla crisi. Il maggior finanziamento e allargamento degli ammortizzatori sociali, programma peraltro che era nei piani di riforma del welfare, deve essere oggi accelerato. Anche alcuni provvedimenti fiscali a favore delle fasce deboli rientrano in questa logica e non hanno nulla a che vedere con riforme fiscali necessarie a sostenere l’offerta, riforme, quest’ultime, che devono essere discusse separatamente e devono avere, per essere efficaci, carattere strutturale. Il piano assistenziale serve ad evitare l’estendersi della logica del salvataggio, degli aiuti, dello stato proprietario, logica che rischia di aumentare la propensione al moral hazard che solo il mercato, e non la minaccia giudiziaria, può contrastare pienamente. L’assistenza è il complemento al mercato, non il sostituto.
9. - Un piano di spesa per investimenti pubblici e manutenzione, la cui finalità non è solo quella di creare immediata domanda aggiuntiva, poiché le sfasature temporali lo impediscono, ma di creare quelle infrastrutture e quell’efficienza di sistema che possono migliorare le aspettative, quelle sì ad effetto immediato, di produttività e competitività delle imprese che operano sul territorio italiano.
10. - Proseguire nella paziente opera riformatrice, e, che non costa, il cui scopo è quello di far funzionare meglio i mercati e lo Stato in tutti i suoi comparti allo scopo di un recupero complessivo di produttività del sistema economico italiano. Se proprio vogliamo ricordare Keynes, potremmo richiamare la necessità di un nuovo ordine monetario internazionale, ma questo è un compito politico che spetta alla comunità delle nazioni e non al governo italiano. Buona agenda per i prossimi difficili mesi.
È vivo e ancora tra noi Keynes? No, è morto e lasciamolo riposare in pace, con il rispetto che dobbiamo ai grandi pensatori che hanno aperto nuove strade alla teoria ed alla pratica dell’economia. Evitiamo, soprattutto, di coinvolgerlo nel ripetersi, a livello di farsa, dello stantio dibattito sul ruolo dello stato, o della politica, in opposizione al mercato, frutto di una cattiva teoria e di una cattiva politica. Tanto per essere chiari, la crisi che stiamo attraversando è, innanzitutto, un fallimento della politica e non del mercato. E, infatti, lo stato, cioè la politica, che ha stabilito regole imperfette, o sbagliate, all’agire degli intermediari finanziari. E se lo ha fatto per ignoranza o scarsa comprensione dei meccanismi finanziari, non vediamo come la politica possa ergersi a giudice del mercato come meccanismo di allocazione e di utilizzo efficiente delle risorse. Se, invece, la politica non ha fissato le regole corrette perché “catturata” dagli interessi privati degli agenti sul mercato, siano essi i cosiddetti “gnomi” a capo del sistema bancario o altri interessi economici forti, ne traiamo ancor più la prova che non sempre lo stato e la politica interpretano gli interessi generali, gli interessi della stabilità e della crescita economica o delle fasce più deboli della popolazione.
2. - Ma non è solo lo stato “regolatore” ad avere mostrato insufficienza. Anche lo stato “sanzionatore” non ha brillato. Anzi, spesso, ha provocato disastri quando, esplicitamente o implicitamente, ha offerto garanzie tali da provocare un aumento del moral hazard, cioè della propensione al rischio, degli operatori economici, persuasi che lo stato avrebbe impedito, in ultima istanza, anche la sanzione del mercato in caso di insuccesso delle proprie azioni. Fatto, questo, che puntualmente sta avvenendo, ponendo il non nuovo dilemma tra la conferma di aspettative non virtuose, con l’invio di segnali sbagliati agli operatori per il futuro, e l’esigenza di far fronte ad una crisi sistemica con un intervento forte e responsabile dello stato.
3. - Anche dal punto di vista macroeconomico l’attuale crisi non è figlia del laissez faire, del non intervento, ma al contrario di una politica interventista di tipo keynesiano. Mentre Milton Friedman, considerato il principale fautore del capitalismo e del mercato, predicava di mantenere stabile la crescita dell’offerta di moneta, e quindi anche della liquidità creata dalle banche, era Keynes, peraltro anch’esso sostenitore del capitalismo e del mercato, che predicava, sotto determinate condizioni di capacità produttiva inutilizzata, la creazione di liquidità necessaria a stimolare la domanda aggregata. Se, quindi, si vuole semplificare in modo provocatorio l’analisi, possiamo affermare che la politica economica americana dell’ultimo decennio è stata certamente ispirata più dai precetti keynesiani che da quelli di Milton Friedman. Per essere più precisi, la politica monetaria espansiva è stata utilizzata da Greenspan in modo spregiudicato, e non certo in conformità del pensiero liberista della scuola di Chicago, per sostenere proprio la domanda aggregata. Prima, alla fine del secolo scorso, essa ha accompagnato la bolla speculativa della new economy. Poi, dopo lo scoppio di questa bolla ed il conseguente crollo della ricchezza finanziaria degli americani, è stata utilizzata per compensare queste perdite con un aumento della ricchezza immobiliare. Forte liquidità e bassi tassi di interesse sono stati, infatti, la base sia del formarsi della bolla immobiliare sia dell’uso eccessivo della leva finanziaria da parte del sistema creditizio. Il fine era il sostegno della domanda interna ed in particolare dei consumi degli americani, fortemente dipendenti dalla ricchezza. La politica monetaria espansiva di Greenspan ha, in tal modo, assicurato un lungo periodo di prosperità agli americani, anche se la crisi finanziaria e la recessione attuale ne sono, in parte, la conseguenza. Si dovrebbe, inoltre, ricordare che anche la bolla speculativa della new economy ebbe il merito di far confluire capitali in abbondanza ad un settore che avrebbe cambiato il mondo e la sua economia, anche se molti risparmiatori incauti ne pagarono il prezzo. Ma non si deve dimenticare che l’idea keynesiana secondo la quale la politica monetaria espansiva, sostenendo la domanda aggregata, avrebbe creato il reddito e quindi, ex post, anche il risparmio necessario agli investimenti, non sembra aver funzionato negli Stati Uniti, a causa di una propensione al risparmio prossima allo zero.
4- - Vi è un altro tassello del puzzle, che ci mostra come dietro il mondo che alcuni pensano sia finito non ci sia solo mercato ma mani molto visibili. L’economia americana ha trovato il risparmio necessario, che non riusciva o si rifiutava di creare in casa, in Cina, ed in altri paesi emergenti, ove il governo non sottoponeva il tasso di cambio, cioè il valore della sua moneta, alla disciplina del mercato valutario, frenava salari e domanda interna, e accumulava mediante surplus commerciali riserve valutarie, prevalentemente in dollari, e le impiegava in titoli americani. Cambi amministrati e controllo del movimento dei capitali non sono il regno del libero mercato internazionale o del mercato selvaggio. Senza queste mani molto visibili gli squilibri americani, fondati sul deficit interno ed estero, non sarebbero potuti crescere tanto e così a lungo.
5. - Tutto questo è per dire che, seguendo il metodo di Keynes e non banalmente ricette coniate in un mondo che non c’è più, è necessario affrontare con umiltà intellettuale la crisi attuale, per affinare la capacità esplicativa della teoria economica, che proprio dal confronto con le sfide della storia ha sempre trovato stimolo per i suoi progressi, senza rinchiudersi all’interno di scuole di pensiero ideologiche. D’altra parte, in un momento in cui il richiamo allo stato ed alla politica prevale, per la paura che la crisi possa avvitarsi in modo incontrollabile se affidata alla cura degli animal spirits che operano sul mercato, essa rimane incerta e dubbiosa dopo aver reclamato la primazia. Il problema che abbiamo di fronte non è quello di una maggiore presenza della politica, ma di quale politica. Il problema attuale non è il richiamo all’intervento pubblico, magari sotto la bandiera simbolica di un nuovo keynesismo, ma come strutturare l’intervento pubblico, con quali strumenti e con quali finalità. E come, soprattutto, affrontare l’emergenza senza correre il rischio di spostare in avanti i problemi che oggi si manifestano. Come si è detto sopra, il tentativo di Greespan di eliminare il ciclo dall’economia americana ha prodotto risultati in parte imprevisti. Un esempio può chiarire come il breve periodo possa a volte confliggere con il medio e lungo periodo. Di fronte ad una emergenza alimentare in paesi in via di sviluppo, di fronte ad una catastrofe umanitaria, la risposta è in genere quella di inviare cibo e derrate alimentari attraverso i programmi di aiuto internazionali. Ma non è un mistero che questi interventi contribuiscono a distruggere i mercati agricoli locali ed a porre le basi per una successiva carestia.
6. – L’esempio può sembrare forte, ma questo è uno dei problemi, non ideologici, che si pongono di fronte ai governi che debbono cercare di impedire che la crisi finanziaria si trasferisca in modo catastrofico nell’economia reale. Se guardiamo all’Europa e poi all’Italia, i problemi non sono più semplici che negli Stati Uniti. Ed ancor più che negli Stati Uniti il richiamo a Keynes ci sembra fuorviante. In Italia, ed in Europa, abbiamo avuto troppo poco mercato ma abbiamo avuto anche una latitanza della politica economica. Schiacciati da un enorme debito pubblico, nascosti dietro i veti europei perché incapaci, senza il richiamo all’autorità superiore, di contrastare tutte le corporazioni che hanno saccheggiato l’Italia facendone il paese con il maggior grado di disuguaglianza ed il minor tasso di crescita tra i paesi europei comparabili al nostro, la politica italiana non ha dato per lungo tempo grande prova di sé.
7. - Ben vengano, quindi, eventuali apparenti incertezze sul da farsi. La necessaria prontezza di risposta dei governi non esime dalla riflessione. Risposte od annunci affrettati sono sottoposti ad una immediata attenta valutazione dei mercati, che è poi la valutazione delle imprese e delle famiglie risparmiatrici e consumatrici. Se le risposte sono solo mediatiche o palesemente insufficienti, esse non incidono nelle aspettative e, quindi, nei comportamenti da cui dipende l’uscita dalla crisi, ma al contrario possono aggravare le crisi di sfiducia.
8. - Probabilmente, in Italia, l’azione pubblica nel momento attuale dovrebbe seguire tre direttive principali. Primo, un’azione di assistenza per chi è colpito dalla crisi. Il maggior finanziamento e allargamento degli ammortizzatori sociali, programma peraltro che era nei piani di riforma del welfare, deve essere oggi accelerato. Anche alcuni provvedimenti fiscali a favore delle fasce deboli rientrano in questa logica e non hanno nulla a che vedere con riforme fiscali necessarie a sostenere l’offerta, riforme, quest’ultime, che devono essere discusse separatamente e devono avere, per essere efficaci, carattere strutturale. Il piano assistenziale serve ad evitare l’estendersi della logica del salvataggio, degli aiuti, dello stato proprietario, logica che rischia di aumentare la propensione al moral hazard che solo il mercato, e non la minaccia giudiziaria, può contrastare pienamente. L’assistenza è il complemento al mercato, non il sostituto.
9. - Un piano di spesa per investimenti pubblici e manutenzione, la cui finalità non è solo quella di creare immediata domanda aggiuntiva, poiché le sfasature temporali lo impediscono, ma di creare quelle infrastrutture e quell’efficienza di sistema che possono migliorare le aspettative, quelle sì ad effetto immediato, di produttività e competitività delle imprese che operano sul territorio italiano.
10. - Proseguire nella paziente opera riformatrice, e, che non costa, il cui scopo è quello di far funzionare meglio i mercati e lo Stato in tutti i suoi comparti allo scopo di un recupero complessivo di produttività del sistema economico italiano. Se proprio vogliamo ricordare Keynes, potremmo richiamare la necessità di un nuovo ordine monetario internazionale, ma questo è un compito politico che spetta alla comunità delle nazioni e non al governo italiano. Buona agenda per i prossimi difficili mesi.
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