Federico Geremicca ci regala oggi su “La Stampa” un utile (per riflettere) ed interessante (per annotazioni e citazioni) articolo sul travaglio interno del Partito Democratico. Titolo: “Pd, la guerra dei trent’anni”. Vediamolo:
Il moltiplicarsi dell’insofferenza ha ormai quasi l’intensità del rigetto. E l’esasperazione comincia a tracimare in invettive sanamente prepolitiche: «La mia decisione è figlia di una delusione profonda». Lo ha scritto l’altro giorno Irene Tinagli, 34 anni e una cattedra a Pittsburgh, annunciando le sue dimissioni dalla Direzione del Pd: «Non sarebbe male se Veltroni e D’Alema si dimettessero: mi pare che abbiano fatto più danni della grandine». Esagerata.
Ma Piero Fassino (e proprio in un’ntervista a La Stampa) pur non arrivando a tanto, ha fatto sapere che anche lui non ne può più. «Il continuo duello tra Orazi e Curiazi serve solo a sfibrare il partito e la nostra gente...». Già, il Partito. Che quei due, per altro, non possono considerare roba loro: «Ai sostenitori di Veltroni e D’Alema che se le danno di santa ragione appena possono - ha avvertito Europa, un tempo quotidiano della Margherita - qualcuno dovrebbe spiegare che i mobili di casa non li hanno portati solo loro. Dunque sfasciarli non è loro diritto...». È come se d’improvviso, quasi a cercare una risposta alla grandinata di guai che ha ripreso a venir giù, il cerchio avesse quadrato: è la Guerra dei Trent’anni tra Veltroni e D’Alema che sta uccidendo il futuro del Pd. D’incanto, tutto sembra chiaro a tutti. O forse, d’incanto, hanno semplicemente trovato il coraggio di dirlo. Perfino Enrico Letta se n’è convinto. E l’ha comunicato: naturalmente con la prudenza dovuta a un potenziale successore. «Se tutto il partito dovesse dividersi tra dalemiani e veltroniani - ha spiegato al Corriere - questo rischierebbe di far passare il Pd per la mera continuazione dei Ds: e l’intero progetto fallirebbe». Fallirebbe l’operazione Partito Democratico, insomma. Con le immaginabili conseguenze: compreso il percorso a ritroso di cattolici e moderati, che probabilmente tornerebbero nei luoghi da dove erano partiti, lasciando a Walter, a Massimo e ai loro seguaci il piacere di concludere con calma la carneficina.
Non sta scritto da nessuna parte, naturalmente, che le cose stiano davvero così: e cioè che i travagli del giovane Pd nascano realmente da lì. In fondo, però, non è importante: perché il guaio - per Walter e Massimo - è che il partito va convincendosi che sia proprio così. Rosy Bindi - è noto - è una che non ha peli sulla lingua: e la sua analisi è oggettivamente spietata. «Il nostro problema non è che c’è questa faida: il nostro problema è che c’è soltanto questa. Il Pd non vive scontri autoctoni, legati al partito che siamo e ai problemi che abbiamo da quando siamo nati. Si litiga con la testa voltata all’indietro, D’Alema contro Veltroni, appunto, rivincite e vendette che vengono dal passato. Ma le pare, dico per dire, che noi dovremmo fare un congresso perché lo chiedono i dalemiani contro i veltroniani? Ed è vero che Veltroni non dà spazi, non coinvolge, ci fa apprendere le cose dai giornali: ma le sembra che si possa reagire facendosi la propria televisione, la propria associazione, il proprio giornale, i propri candidati alle segreterie di questo o di quell’altro? Sono dinamiche da “Cosa 4”, da evoluzione post-díessina. Ma guardi che se stiamo parlando di questo, loro devono sapere che molti se ne andranno».
Stiamo parlando di questo? È dunque davvero la Guerra dei Trent’anni che, dopo aver insanguinato i territori del Pds prima e dei Ds fino a un anno fa, sta ora fiaccando anche il Pd? «Vediamo il Pd preda di una coazione a ripetere, sempre gli stessi gesti da parte degli stessi attori calati nelle medesime parti - accusa Europa -. Ma noi non siamo arrivati a fare il Pd per assistere all’infinito replay dello stesso film...». Basta, dunque, con Walter e Massimo. Basta con una faida della quale non si ricorda più nemmeno l’origine. Basta con quei due. L’insofferenza cresce, e rischia davvero di trasformarsi in rigetto. Perfino Claudio Velardi - stratega del dalemismo vincente - riconosce che è così: «Al di là degli opportunismi e delle tatticucce del gruppo dirigente - dice - è il partito che non ne può più. Ieri un importante dirigente periferico di una importante regione, mi ha fatto una battuta che voleva essere ironica, ed è invece drammatica: “Quei due, Walter e Massimo, finiranno col tirarsi le dentiere”...».
C’è naturalmente chi sostiene che la loro sia una guerra finta. O meglio: pronta a diventare armistizio in nome dell’opportunità. «Si sono affrontati in campo aperto - ricordava l’altro giorno Andrea Romano su Il Riformista - in un’unica occasione, nell’ormai lontanissimo 1994. Poi hanno scelto il metodo della reciproca e alternata investitura, come regime di convivenza e convenienza».
È così? La storia dei partiti nei quali hanno militato, dice che è certamente così. Il che non è affatto rassicurante per il futuro del Pd, considerato che sia il Pci, che il Pds e infine i Ds si sono estinti senza riuscire a vedere la fine dell’estenuante duello. Anche oggi, in verità, non si vede via d’uscita, non si scorge in giro chi abbia voglia e qualità per impugnare la spada e liberare il Pd dall’incantesimo. Dunque, il basta con Walter e Massimo rischia di rimanere quel che è: un sussurro a labbra semichiuse.
E dunque, non è soltanto colpa loro se la faccenda resta al punto in cui è. «È colpa anche dei cosiddetti giovani dirigenti, dei leoncini in ascesa che prima di lanciarsi nell’agone cercano la protezione di un qualche dirigente grande – annota Velardi -. Ci vuole che venga fuori qualcuno con un progetto e con tanto coraggio: perché è chiaro che appena li sfiderà, Veltroni e D’Alema cercheranno di liquidarlo. Ci vorrebbe uno come Umberto Bossi, l’ultimo leader, uno che vent`anni fa cominciò a battere le sue valli radicando il partito intorno a un progetto. Ecco, io credo che o va così, oppure niente. Perché dei giovani leader cresciuti come polli in batteria, Walter e Massimo ne fanno polpette». Come ieri. O come anche l’altroieri...
Il moltiplicarsi dell’insofferenza ha ormai quasi l’intensità del rigetto. E l’esasperazione comincia a tracimare in invettive sanamente prepolitiche: «La mia decisione è figlia di una delusione profonda». Lo ha scritto l’altro giorno Irene Tinagli, 34 anni e una cattedra a Pittsburgh, annunciando le sue dimissioni dalla Direzione del Pd: «Non sarebbe male se Veltroni e D’Alema si dimettessero: mi pare che abbiano fatto più danni della grandine». Esagerata.
Ma Piero Fassino (e proprio in un’ntervista a La Stampa) pur non arrivando a tanto, ha fatto sapere che anche lui non ne può più. «Il continuo duello tra Orazi e Curiazi serve solo a sfibrare il partito e la nostra gente...». Già, il Partito. Che quei due, per altro, non possono considerare roba loro: «Ai sostenitori di Veltroni e D’Alema che se le danno di santa ragione appena possono - ha avvertito Europa, un tempo quotidiano della Margherita - qualcuno dovrebbe spiegare che i mobili di casa non li hanno portati solo loro. Dunque sfasciarli non è loro diritto...». È come se d’improvviso, quasi a cercare una risposta alla grandinata di guai che ha ripreso a venir giù, il cerchio avesse quadrato: è la Guerra dei Trent’anni tra Veltroni e D’Alema che sta uccidendo il futuro del Pd. D’incanto, tutto sembra chiaro a tutti. O forse, d’incanto, hanno semplicemente trovato il coraggio di dirlo. Perfino Enrico Letta se n’è convinto. E l’ha comunicato: naturalmente con la prudenza dovuta a un potenziale successore. «Se tutto il partito dovesse dividersi tra dalemiani e veltroniani - ha spiegato al Corriere - questo rischierebbe di far passare il Pd per la mera continuazione dei Ds: e l’intero progetto fallirebbe». Fallirebbe l’operazione Partito Democratico, insomma. Con le immaginabili conseguenze: compreso il percorso a ritroso di cattolici e moderati, che probabilmente tornerebbero nei luoghi da dove erano partiti, lasciando a Walter, a Massimo e ai loro seguaci il piacere di concludere con calma la carneficina.
Non sta scritto da nessuna parte, naturalmente, che le cose stiano davvero così: e cioè che i travagli del giovane Pd nascano realmente da lì. In fondo, però, non è importante: perché il guaio - per Walter e Massimo - è che il partito va convincendosi che sia proprio così. Rosy Bindi - è noto - è una che non ha peli sulla lingua: e la sua analisi è oggettivamente spietata. «Il nostro problema non è che c’è questa faida: il nostro problema è che c’è soltanto questa. Il Pd non vive scontri autoctoni, legati al partito che siamo e ai problemi che abbiamo da quando siamo nati. Si litiga con la testa voltata all’indietro, D’Alema contro Veltroni, appunto, rivincite e vendette che vengono dal passato. Ma le pare, dico per dire, che noi dovremmo fare un congresso perché lo chiedono i dalemiani contro i veltroniani? Ed è vero che Veltroni non dà spazi, non coinvolge, ci fa apprendere le cose dai giornali: ma le sembra che si possa reagire facendosi la propria televisione, la propria associazione, il proprio giornale, i propri candidati alle segreterie di questo o di quell’altro? Sono dinamiche da “Cosa 4”, da evoluzione post-díessina. Ma guardi che se stiamo parlando di questo, loro devono sapere che molti se ne andranno».
Stiamo parlando di questo? È dunque davvero la Guerra dei Trent’anni che, dopo aver insanguinato i territori del Pds prima e dei Ds fino a un anno fa, sta ora fiaccando anche il Pd? «Vediamo il Pd preda di una coazione a ripetere, sempre gli stessi gesti da parte degli stessi attori calati nelle medesime parti - accusa Europa -. Ma noi non siamo arrivati a fare il Pd per assistere all’infinito replay dello stesso film...». Basta, dunque, con Walter e Massimo. Basta con una faida della quale non si ricorda più nemmeno l’origine. Basta con quei due. L’insofferenza cresce, e rischia davvero di trasformarsi in rigetto. Perfino Claudio Velardi - stratega del dalemismo vincente - riconosce che è così: «Al di là degli opportunismi e delle tatticucce del gruppo dirigente - dice - è il partito che non ne può più. Ieri un importante dirigente periferico di una importante regione, mi ha fatto una battuta che voleva essere ironica, ed è invece drammatica: “Quei due, Walter e Massimo, finiranno col tirarsi le dentiere”...».
C’è naturalmente chi sostiene che la loro sia una guerra finta. O meglio: pronta a diventare armistizio in nome dell’opportunità. «Si sono affrontati in campo aperto - ricordava l’altro giorno Andrea Romano su Il Riformista - in un’unica occasione, nell’ormai lontanissimo 1994. Poi hanno scelto il metodo della reciproca e alternata investitura, come regime di convivenza e convenienza».
È così? La storia dei partiti nei quali hanno militato, dice che è certamente così. Il che non è affatto rassicurante per il futuro del Pd, considerato che sia il Pci, che il Pds e infine i Ds si sono estinti senza riuscire a vedere la fine dell’estenuante duello. Anche oggi, in verità, non si vede via d’uscita, non si scorge in giro chi abbia voglia e qualità per impugnare la spada e liberare il Pd dall’incantesimo. Dunque, il basta con Walter e Massimo rischia di rimanere quel che è: un sussurro a labbra semichiuse.
E dunque, non è soltanto colpa loro se la faccenda resta al punto in cui è. «È colpa anche dei cosiddetti giovani dirigenti, dei leoncini in ascesa che prima di lanciarsi nell’agone cercano la protezione di un qualche dirigente grande – annota Velardi -. Ci vuole che venga fuori qualcuno con un progetto e con tanto coraggio: perché è chiaro che appena li sfiderà, Veltroni e D’Alema cercheranno di liquidarlo. Ci vorrebbe uno come Umberto Bossi, l’ultimo leader, uno che vent`anni fa cominciò a battere le sue valli radicando il partito intorno a un progetto. Ecco, io credo che o va così, oppure niente. Perché dei giovani leader cresciuti come polli in batteria, Walter e Massimo ne fanno polpette». Come ieri. O come anche l’altroieri...
Nessun commento:
Posta un commento