Premesso che non si capisce perché Villari dovrebbe lasciare la presidenza della commissione di vigilanza Rai, riprendo da “La Repubblica” di oggi un articolo di Antonello Caporale, titolo: “Un democristiano non se ne va mai”. La free democrat press è sempre ricca di sorprese e usa il colore a profusione. Prima però riporto un’ultima agenzia di oggi che dice: «Il presidente della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, Riccardo Villari, ha effettuato una prima ricognizione delle domande per la programmazione dell’Accesso, ad oggi pervenute alla commissione o ancora in giacenza presso gli uffici di San Macuto. Si tratta di 125 richieste tutt’ora da esaminare: 62 risultavano sospese dalla precedente legislatura; altre 63, in parte già istruite in via amministrativa dagli Uffici, devono essere ancora valutate per la prima volta». Villari insomma è intenzionato a fare il presidente e lo è.
«Ma quello è stato il mio fidanzato!». Quando ha visto in tv la foto di Riccardo Villari, gira purtroppo sempre la stessa, quella con la cravatta regimental, Barbara D’Urso, collegata per la diretta, si e ricordata dei suoi diciassette anni.
La settima giornata da fuggitivo di Villari è iniziata con questo bel ricordo, uno spruzzo di giovinezza. Gioia durata poco perché, dopo un colpo di tosse, Fabrizio Morri del Pd lo ha tenuto mezz’ora a telefono ricordandogli che c’era Zavoli e dunque: «Leva le tende». A questo punto il presidente ha deciso di proseguire la latitanza accucciandosi dietro piazza di Spagna per qualche ora ancora. Fino a che è comparso, ore 14, a palazzo San Macuto la sede della sua commissione. Elegante e sicuro, «scaltro e colto» ha detto di lui il ministro Rotondi.Villari è giunto al palazzo con un bel comportamento istituzionale, sicuro e riservato.
I giornalisti hanno subito capito che sarebbe stato un altro indimenticabile show. Quelli del Pd entravano angustiati, veramente tramortiti. Quegli altri leggeri e disinvolti. La seduta si è chiusa dopo mezz’ora. Villari che col tempo ha consolidato un contegno molto presidenziale, si è materializzato: «Non mi dimetto. Sono un democratico, sono stato eletto democraticamente e faccio questo per tutelare le Istituzioni». Di più: «Ho ricevuto pressioni indebite e minacce». Un giornalista, anch’egli incredulo: ci sarebbe Zavoli al suo posto. Lui con una degnissima faccia di bronzo: «Nessuno mi ha mai informato dell’accordo raggiunto».
Questione di gusti, ma spettacolino non da poco. La truppa dei cronisti si è diretta allora al Senato, dove i democratici dovevano democraticamente decidere l’espulsione di Villari dal gruppo parlamentare. «Secondo lei ha preso soldi?». A questa domanda Anna Finocchiaro è rimasta interdetta, ma non ha ceduto: «A tanto non ci sono arrivata». Villari gode già di una vita agiata e quel che mancava è arrivato: la poltrona. Alla buvette due senatori si scambiano le opinioni: «Ricordi che diceva sempre? Nel vocabolario di un democristiano la parola dimissioni non esiste». E infatti. Con un bicchiere di prosecco in mano Franco Marini, dato come l’ultimo suo referente politico, lo manda a quel paese: «È uno stronzo». Anche Fioroni lo manda lì: «Lo dobbiamo agevolare e fargli capire da che parte deve andare». «Ah, la tentazione della carne!», dice Giorgio Tonini, amico di Veltroni.
Tra le cinque e le sei il nome di Villari è scomparso tra quelli iscritti al gruppo del Partito democratico, il suo corpo si è volatilizzato di nuovo lasciando la sua assistente, esausta e parecchio incredula, nello sconforto e nel totale disimpegno: «Non so nulla, non so nulla». Forse di nuovo in viaggio a Napoli, o riparato in qualche rifugio romano. Fuggiasco, di nuovo. Una magia la sua elezione che, secondo i bene informati, è tutta dentro l’abilità di un uomo: Italo Bocchino. Bocchino, una onorata carriera da portaborse, ora vicecapogruppo della maggioranza, dona ancora un consiglio all`opposi-lerlo».[manca almeno una riga nel testo, nota mia] Dall’altro lato la Giovanna Melandri, afflitta ma resistente, tenta la mossa disperata: «A questo punto il problema è di Berlusconi». Cicchitto: «Problema nostro? Ma è loro!».
Acque confuse e corpi stremati. Nuovo messaggio dal presidente fuggitivo: «I partiti devono fare un passo indietro, devono rispettare le Istituzioni». È tutto così inverosimile da far apparire magico dunque irreale questo pomeriggio romano ancora con un bel sole tiepido. Magico come l’abracadabra che ha trasformato Villari: da qui a lì ma a testa alta, invocando le guarentigie repubblicane e persino difendendo l’onore delle istituzioni. C’è stato persino un comunicato del senatore De Gregorio, transfuga della passata legislatura, che ha messo i puntini sulle i e illustrato il coraggio impiegato da sé medesimo nel trasferimento, armi e bagagli, da Prodi a Berlusconi.
Tutto è perciò noto e già successo, e questo replay sembra nel solco della tradizione. «Non ci posso credere, non voglio crederci», quasi piange Vincenzo Vita che per tutta la vita ha lottato contro Berlusconi e adesso vede il nemico entrargli in casa, mettersi di fianco a lui. Oggi non ci sono dichiarazioni dei dalemiani, battaglia sospesa in attesa del ritorno del capo dall’estero. Anche Nicola Latorre ha tenuto la bocca cucita e ha allontanato il suo corpo da ogni sospetto. Due giorni prima l’avevano visto confabulare proprio con Villari. Ma non c’erano telecamere in giro, per fortuna.
«Ma quello è stato il mio fidanzato!». Quando ha visto in tv la foto di Riccardo Villari, gira purtroppo sempre la stessa, quella con la cravatta regimental, Barbara D’Urso, collegata per la diretta, si e ricordata dei suoi diciassette anni.
La settima giornata da fuggitivo di Villari è iniziata con questo bel ricordo, uno spruzzo di giovinezza. Gioia durata poco perché, dopo un colpo di tosse, Fabrizio Morri del Pd lo ha tenuto mezz’ora a telefono ricordandogli che c’era Zavoli e dunque: «Leva le tende». A questo punto il presidente ha deciso di proseguire la latitanza accucciandosi dietro piazza di Spagna per qualche ora ancora. Fino a che è comparso, ore 14, a palazzo San Macuto la sede della sua commissione. Elegante e sicuro, «scaltro e colto» ha detto di lui il ministro Rotondi.Villari è giunto al palazzo con un bel comportamento istituzionale, sicuro e riservato.
I giornalisti hanno subito capito che sarebbe stato un altro indimenticabile show. Quelli del Pd entravano angustiati, veramente tramortiti. Quegli altri leggeri e disinvolti. La seduta si è chiusa dopo mezz’ora. Villari che col tempo ha consolidato un contegno molto presidenziale, si è materializzato: «Non mi dimetto. Sono un democratico, sono stato eletto democraticamente e faccio questo per tutelare le Istituzioni». Di più: «Ho ricevuto pressioni indebite e minacce». Un giornalista, anch’egli incredulo: ci sarebbe Zavoli al suo posto. Lui con una degnissima faccia di bronzo: «Nessuno mi ha mai informato dell’accordo raggiunto».
Questione di gusti, ma spettacolino non da poco. La truppa dei cronisti si è diretta allora al Senato, dove i democratici dovevano democraticamente decidere l’espulsione di Villari dal gruppo parlamentare. «Secondo lei ha preso soldi?». A questa domanda Anna Finocchiaro è rimasta interdetta, ma non ha ceduto: «A tanto non ci sono arrivata». Villari gode già di una vita agiata e quel che mancava è arrivato: la poltrona. Alla buvette due senatori si scambiano le opinioni: «Ricordi che diceva sempre? Nel vocabolario di un democristiano la parola dimissioni non esiste». E infatti. Con un bicchiere di prosecco in mano Franco Marini, dato come l’ultimo suo referente politico, lo manda a quel paese: «È uno stronzo». Anche Fioroni lo manda lì: «Lo dobbiamo agevolare e fargli capire da che parte deve andare». «Ah, la tentazione della carne!», dice Giorgio Tonini, amico di Veltroni.
Tra le cinque e le sei il nome di Villari è scomparso tra quelli iscritti al gruppo del Partito democratico, il suo corpo si è volatilizzato di nuovo lasciando la sua assistente, esausta e parecchio incredula, nello sconforto e nel totale disimpegno: «Non so nulla, non so nulla». Forse di nuovo in viaggio a Napoli, o riparato in qualche rifugio romano. Fuggiasco, di nuovo. Una magia la sua elezione che, secondo i bene informati, è tutta dentro l’abilità di un uomo: Italo Bocchino. Bocchino, una onorata carriera da portaborse, ora vicecapogruppo della maggioranza, dona ancora un consiglio all`opposi-lerlo».[manca almeno una riga nel testo, nota mia] Dall’altro lato la Giovanna Melandri, afflitta ma resistente, tenta la mossa disperata: «A questo punto il problema è di Berlusconi». Cicchitto: «Problema nostro? Ma è loro!».
Acque confuse e corpi stremati. Nuovo messaggio dal presidente fuggitivo: «I partiti devono fare un passo indietro, devono rispettare le Istituzioni». È tutto così inverosimile da far apparire magico dunque irreale questo pomeriggio romano ancora con un bel sole tiepido. Magico come l’abracadabra che ha trasformato Villari: da qui a lì ma a testa alta, invocando le guarentigie repubblicane e persino difendendo l’onore delle istituzioni. C’è stato persino un comunicato del senatore De Gregorio, transfuga della passata legislatura, che ha messo i puntini sulle i e illustrato il coraggio impiegato da sé medesimo nel trasferimento, armi e bagagli, da Prodi a Berlusconi.
Tutto è perciò noto e già successo, e questo replay sembra nel solco della tradizione. «Non ci posso credere, non voglio crederci», quasi piange Vincenzo Vita che per tutta la vita ha lottato contro Berlusconi e adesso vede il nemico entrargli in casa, mettersi di fianco a lui. Oggi non ci sono dichiarazioni dei dalemiani, battaglia sospesa in attesa del ritorno del capo dall’estero. Anche Nicola Latorre ha tenuto la bocca cucita e ha allontanato il suo corpo da ogni sospetto. Due giorni prima l’avevano visto confabulare proprio con Villari. Ma non c’erano telecamere in giro, per fortuna.
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