Villari, dunque, non solo è intenzionato a fare il presidente della Vigilanza Rai, ma lo fa. Ha espresso solidarietà alla troupe del Tg1 aggredita a Roma, e ha promesso: «II servizio pubblico non si farà intimidire». Infine, il neopresidente ha ricevuto un appello da Riccardo Nencini, segretario del Partito socialista: «Da due settimane sui tg Rai c’è il silenzio più assoluto sulle nostre iniziative - ha scritto Nencini - siamo certi che Villari vorrà prendere provvedimenti urgenti». Tutti noi siamo certi che li prenderà. Intanto sul fronte del “ma perché ce lo fate fare” i magnifici quattro, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri capigruppo Pdl alla Camera e al Senato, Italo Bocchino e Gaetano Quagliariello vicecapigruppo, hanno mandato una lettera al “Corriere della Sera” che stamani l’ha pubblicata. Scrive la “banda dei quattro” (detto con molta simpatia, ovviamente):
Caro Direttore, sulla questione della presidenza della Commissione di vigilanza, si sono fin qui lette le interpretazioni più diverse sulla politica dei gruppi PdL. E sono state anche accreditate fantasiose divisioni nella maggioranza. Riteniamo doverosa la ricostruzione dei fatti, perché solo da uno sforzo di verità potrà derivare la via d’uscita.
Una premessa è necessaria. Le votazioni parlamentari che richiedono il concorso di maggioranza e opposizione implicano uno sforzo di condivisione: una regola, antica senza la quale, ad esempio, l’elezione di Nilde lotti e di Giorgio Napoletano alla presidenza della Camera non sarebbe stata possibile. Il Partito democratico, invece, avendo stabilito un’intesa subalterna con l’Italia dei Valori, ha avanzato la candidatura di Leoluca Orlando senza alcuna consultazione preliminare. Il centrodestra ha replicato esprimendo forte perplessità per l’ipotesi che una commissione di garanzia possa essere presieduta da un rappresentante di un partito che vuole fare sull’informazione pubblica una battaglia di parte.
Da qui l’originario no a Orlando. A un certo punto, si è persino provato a superare quel no. Ma il 29 settembre l’esponente del1’Idv ha pensato bene di dichiarare al Suo giornale che «l’autoritarismo di Berlusconi ci sta portando verso un modello argentino, con tutto ciò che ne consegue». Ed è davvero arduo chiedere a una maggioranza di concedere i propri voti, senza mettere a repentaglio la sua dignità, a chi esprime un simile giudizio. Il tentativo, dunque, è fallito. Anche perché la sinistra ha rifiutato intese più ampie da condividere con il centrodestra, che con grande senso di responsabilità avrebbe accettato l’indicazione-imposizione delle minoranze se ciò avesse trovato corrispondenza in altre scelte comuni in cui le leggi e le regole del Parlamento impongono intese. Noi, invece, per l’opposizione dovevamo solo subire e mai proporre, anche quando questo diritto ci spettava.
In occasione dell’elezione del giudice costituzionale, infatti, l’opposizione ha preteso che il centrodestra ritirasse la candidatura di Gaetano Pecorella, personalità di prestigio conclamato, per ragioni dei tutto pretestuose o, comunque, da noi non condivise. Pur di arrivare a una soluzione, si è chiesto al prof. Pecorella di fare un passo indietro, nonostante fosse un’ingiustizia. Sembrava a quel punto scontato, e non solo a noi, che sostituito il prof. Pecorella con il prof. Frigo, si giungesse a un’analoga sostituzione del candidato alla presidenza della Vigilanza, ad esempio con il sen. Sergio Zavoli, che avrebbe immediatamente ricevuto i voti della maggioranza Pd e Idv, invece, hanno preteso di mantenere la candidatura di Orlando e contemporaneamente hanno drammatizzato la situazione, tentando di far credere che fosse il centrodestra a fare ostruzionismo. Hanno provato, cioè, a trasformare il loro diritto di proposta in un diritto di imposizione, scaricando sulla controparte la responsabilità dello stallo. I vertici parlamentari della maggioranza non hanno dunque avuto altra scelta che percorrere senza più indugi la via indicata dai regolamenti parlamentari: non far più mancare il numero legale in Commissione, spingere l’opposizione a tornare nei binari della prassi e, solo in ultima istanza, votare per un membro dell’opposizione diverso dall’on. Orlando.
L’opposizione, però, è rimasta abbarbicata al nome di Orlando e a questo punto il sen. Villari è stato eletto con una maggioranza trasversale, senza alcuna intesa preventiva, prendendo atto solo della sua disponibilità a non dimettersi. Si è trattato dì un tipico percorso parlamentare, proceduralmente regolare e politicamente limpido. Il Pd avrebbe potuto o accettare l’esito o convincere Villari a dimettersi, coinvolgendolo nella soluzione della vicenda. Non ha fatto né l’una né l’altra cosa salvo avanzare, dopo il ritiro dalla Commissione dei membri dell’Idv, la candidatura del sen. Zavoli, verso la quale noi abbiamo espresso apprezzamento e accordo. Ribadiamo questa disponibilità. Non possiamo però sottoscrivere proposte non previste dai regolamenti che potrebbero creare gravi precedenti e trasformare surrettiziamente un regime parlamentare in un direttorio concedendo ai partiti poteri esorbitanti. La sfiducia contro un Presidente regolarmente eletto potrebbe essere un domani utilizzata per analoghe operazioni contro i vertici di Camera e Senato o delle Commissioni ordinarie. Si tratta d’ipotesi irresponsabili. Mentre l’unica strada percorribile è quella della moral suasion, seguita per altro dai presidenti di Camera e Senato e dal presidente del Consiglio.
Il Pd, invece, non ha trovato di meglio da fare che espellere il sen. Villari, provocando così un ulteriore irrigidimento della situazione. Ed è apparso addirittura grottesco che l’on. Veltroni abbia scaricato la soluzione del problema sulla Presidenza del Consiglio, proprio mentre il suo alleato Di Pietro, senza essere smentito dal Pd, paragonava Berlusconi a Videla e a Hitler definendolo «grande corruttore». La responsabilità del punto in cui si è giunti è, dunque, innanzi tutto di Walter Veltroni. Opinione condivisa anche da esponenti del Pd, se l’on. Morri ha dichiarato al Suo giornale: «Walter ha condotto questa storia in maniera del cavolo, ed è infatti una catastrofe».
Ci si potrebbe fermare qui. Ma il senso di responsabilità che ha guidato i nostri comportamenti ci spinge a invitare il sen. Villari a valutare l’appello dei presidenti di Camera e Senato e riflettere sul rischio che l’inesistenza dei requisiti minimi di collaborazione tra il presidente della Commissione di Vigilanza e una parte significativa di essa possa produrre una paralisi della funzione e dei lavori della Commissione.
Caro Direttore, sulla questione della presidenza della Commissione di vigilanza, si sono fin qui lette le interpretazioni più diverse sulla politica dei gruppi PdL. E sono state anche accreditate fantasiose divisioni nella maggioranza. Riteniamo doverosa la ricostruzione dei fatti, perché solo da uno sforzo di verità potrà derivare la via d’uscita.
Una premessa è necessaria. Le votazioni parlamentari che richiedono il concorso di maggioranza e opposizione implicano uno sforzo di condivisione: una regola, antica senza la quale, ad esempio, l’elezione di Nilde lotti e di Giorgio Napoletano alla presidenza della Camera non sarebbe stata possibile. Il Partito democratico, invece, avendo stabilito un’intesa subalterna con l’Italia dei Valori, ha avanzato la candidatura di Leoluca Orlando senza alcuna consultazione preliminare. Il centrodestra ha replicato esprimendo forte perplessità per l’ipotesi che una commissione di garanzia possa essere presieduta da un rappresentante di un partito che vuole fare sull’informazione pubblica una battaglia di parte.
Da qui l’originario no a Orlando. A un certo punto, si è persino provato a superare quel no. Ma il 29 settembre l’esponente del1’Idv ha pensato bene di dichiarare al Suo giornale che «l’autoritarismo di Berlusconi ci sta portando verso un modello argentino, con tutto ciò che ne consegue». Ed è davvero arduo chiedere a una maggioranza di concedere i propri voti, senza mettere a repentaglio la sua dignità, a chi esprime un simile giudizio. Il tentativo, dunque, è fallito. Anche perché la sinistra ha rifiutato intese più ampie da condividere con il centrodestra, che con grande senso di responsabilità avrebbe accettato l’indicazione-imposizione delle minoranze se ciò avesse trovato corrispondenza in altre scelte comuni in cui le leggi e le regole del Parlamento impongono intese. Noi, invece, per l’opposizione dovevamo solo subire e mai proporre, anche quando questo diritto ci spettava.
In occasione dell’elezione del giudice costituzionale, infatti, l’opposizione ha preteso che il centrodestra ritirasse la candidatura di Gaetano Pecorella, personalità di prestigio conclamato, per ragioni dei tutto pretestuose o, comunque, da noi non condivise. Pur di arrivare a una soluzione, si è chiesto al prof. Pecorella di fare un passo indietro, nonostante fosse un’ingiustizia. Sembrava a quel punto scontato, e non solo a noi, che sostituito il prof. Pecorella con il prof. Frigo, si giungesse a un’analoga sostituzione del candidato alla presidenza della Vigilanza, ad esempio con il sen. Sergio Zavoli, che avrebbe immediatamente ricevuto i voti della maggioranza Pd e Idv, invece, hanno preteso di mantenere la candidatura di Orlando e contemporaneamente hanno drammatizzato la situazione, tentando di far credere che fosse il centrodestra a fare ostruzionismo. Hanno provato, cioè, a trasformare il loro diritto di proposta in un diritto di imposizione, scaricando sulla controparte la responsabilità dello stallo. I vertici parlamentari della maggioranza non hanno dunque avuto altra scelta che percorrere senza più indugi la via indicata dai regolamenti parlamentari: non far più mancare il numero legale in Commissione, spingere l’opposizione a tornare nei binari della prassi e, solo in ultima istanza, votare per un membro dell’opposizione diverso dall’on. Orlando.
L’opposizione, però, è rimasta abbarbicata al nome di Orlando e a questo punto il sen. Villari è stato eletto con una maggioranza trasversale, senza alcuna intesa preventiva, prendendo atto solo della sua disponibilità a non dimettersi. Si è trattato dì un tipico percorso parlamentare, proceduralmente regolare e politicamente limpido. Il Pd avrebbe potuto o accettare l’esito o convincere Villari a dimettersi, coinvolgendolo nella soluzione della vicenda. Non ha fatto né l’una né l’altra cosa salvo avanzare, dopo il ritiro dalla Commissione dei membri dell’Idv, la candidatura del sen. Zavoli, verso la quale noi abbiamo espresso apprezzamento e accordo. Ribadiamo questa disponibilità. Non possiamo però sottoscrivere proposte non previste dai regolamenti che potrebbero creare gravi precedenti e trasformare surrettiziamente un regime parlamentare in un direttorio concedendo ai partiti poteri esorbitanti. La sfiducia contro un Presidente regolarmente eletto potrebbe essere un domani utilizzata per analoghe operazioni contro i vertici di Camera e Senato o delle Commissioni ordinarie. Si tratta d’ipotesi irresponsabili. Mentre l’unica strada percorribile è quella della moral suasion, seguita per altro dai presidenti di Camera e Senato e dal presidente del Consiglio.
Il Pd, invece, non ha trovato di meglio da fare che espellere il sen. Villari, provocando così un ulteriore irrigidimento della situazione. Ed è apparso addirittura grottesco che l’on. Veltroni abbia scaricato la soluzione del problema sulla Presidenza del Consiglio, proprio mentre il suo alleato Di Pietro, senza essere smentito dal Pd, paragonava Berlusconi a Videla e a Hitler definendolo «grande corruttore». La responsabilità del punto in cui si è giunti è, dunque, innanzi tutto di Walter Veltroni. Opinione condivisa anche da esponenti del Pd, se l’on. Morri ha dichiarato al Suo giornale: «Walter ha condotto questa storia in maniera del cavolo, ed è infatti una catastrofe».
Ci si potrebbe fermare qui. Ma il senso di responsabilità che ha guidato i nostri comportamenti ci spinge a invitare il sen. Villari a valutare l’appello dei presidenti di Camera e Senato e riflettere sul rischio che l’inesistenza dei requisiti minimi di collaborazione tra il presidente della Commissione di Vigilanza e una parte significativa di essa possa produrre una paralisi della funzione e dei lavori della Commissione.
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