martedì 25 novembre 2008

La riforma Calderoli è solo un antidolorifico e altre cosette

Fonti giudiziarie di oggi riferiscono che i pm di Milano hanno chiesto il rinvio a giudizio per Telecom Italia, Pirelli e l’ex numero uno della security Giuliano Tavaroli, indagati nell'ambito dell’indagine sulla raccolta illecita di informazioni riservate. Le due aziende sono indagate per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società. La richiesta dei pm è giunta dopo che lo scorso luglio era stato notificato il provvedimento di chiusura indagini alle due aziende e a tutti gli altri indagati, tra i quali non risultano né il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera, né l'ex-top manager Carlo Buora.
L'inchiesta, condotta dai pm Nicola Piacente, Fabio Napoleone e Stefano Civardi, è partita due anni fa sulla presunta raccolta illegale di informazioni riservate da parte di ex manager di Telecom ed ha portato all’arresto di decine di persone, tra cui lo stesso Tavaroli, l’ex numero due del Sismi Marco Mancini e l’investigatore privato Emanuele Cipriani, oltre a una serie di tecnici informatici. Le ipotesi di reato contestate a vario titolo ai diversi indagati sono di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali, rivelazione di segreto d'ufficio, appropriazione indebita, falso, accesso abusivo a sistemi informatici, favoreggiamento e riciclaggio.
Sempre in ambito economico fa notizia oggi un rapporto presentato da Business international e che è stato elaborato su dati dell'Economist intelligence unit. Il rapporto colloca l'Italia al quarantesimo posto nel mondo per livello di competitività, immediatamente dietro Paesi come Lettonia e Thailandia e prima di Lituania e Brasile. A livello europeo l’Italia è davanti solo a Grecia e Turchia.
Le stime del centro di ricerca dell'Economist, elaborate prima che dello scoppio della crisi finanziaria internazionale, prevedono per i prossimi quattro anni un modesto miglioramento per il nostro paese, che dovrebbe superare la sola Lettonia e posizionarsi al trentanovesimo posto.
Per restare nell’ambito dei soldi, in questo caso di finanza pubblica attacco a questo post un articolo tratto da “Il Secolo XIX” di, vista l’ora, ieri, firmato da Carlo Stagnaro e intitolato: “Il federalismo non basta c’è la crisi, sparigliamo”.

Il federalismo fiscale vittima della crisi? Almeno temporaneamente, pare proprio di sì. È infatti ormai chiaro che non sarà possibile, per il Parlamento, approvare la riforma entro Natale, come aveva più volte auspicato il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli. Ma la recessione non è l’unico ostacolo: resta tutto da sciogliere il nodo politico interno al centrodestra, con la doppia spaccatura tra “sudisti” e “nordisti” e il timore del Pdl di essere elettoralmente cannibalizzato. nelle regioni settentrionali dalla Lega Nord. Il fatto è che la bozza Calderoli, pur contenendo una serie di spunti interessanti, non costituisce quella profonda riorganizzazione istituzionale che, dai primi anni Novanta, è tra le priorità sempre dichiarate e mai realmente affrontate della politica italiana.
Il disegno leghista introduce cambiamenti spesso condivisibili. che vanno nella direzione di un’onesta razionalizzazione della spesa pubblica. Il passaggio ai costi standard, per esempio, può essere uno strumento efficace per tagliare le inefficiente, specie in quei settori - come la sanità - dove è talvolta complicato identificarle e rimuoverle. Analogamente, la valorizzazione di Regioni, Province e Comuni può avvicinare ai cittadini le decisioni di spesa, rendendole al tempo stesso più trasparenti e più controllabili. Tuttavia, manca una chiara definizione di quale possa o debba essere l’autonomia tributaria di questi soggetti. Se il loro finanziamento è demandato largamente alla compartecipazione al gettito di imposte nazionali, potrebbe sortire addirittura l’effetto opposto a quello desiderato: come hanno evidenziato sia la Corte dei conti, sia i tecnici del Senato, separando la fonte del prelievo (lo Stato) da chi beneficia del gettito (gli enti locali), si crea un incentivo perverso per questi ultimi a investire in iniziative clientelari. allo scopo di procacciare voti e soddisfare i gruppi di pressione.
Inoltre, il trasferimento di risorse in periferia crea un vuoto al centro. che in qualche modo dovrà essere colmato. L’esperienza dell’Ici è, da questo punto di vista, eloquente: per quanto odiosa fosse una tassa sulla casa, quanto meno essa era un elemento di responsabilizzazione dei sindaci, che venivano chiamati a rispondere non solo di come utilizzavano i soldi pubblici, ma anche di quanti ne raccoglievano.
In un certo senso, allora, l’allungamento dei tempi per l’approvazione del disegno di legge Calderoli apre una finestra d’opportunità per una riforma che sia, al tempo stesso, più incisiva e più razionale. E che, soprattutto, prenda di petto non già la questione della razionalizzazione dei costi, quanto quella più generale del ripensamento del Paese. Il federalismo non è una forma di decentramento, ma un modello alternativo di organizzazione politica, in virtù del quale ciascuno dei soggetti che prende parte al patto federale dispone di una sua propria sfera di sovranità. Un federalismo ben funzionante mette in competizione i diversi territori. Nel lungo termine ci si aspetta che esso abbia lo stesso effetto della concorrenza nel mercato. cioè far emergere e premiare le soluzioni migliori - che combinano minor prelievo fiscale con servizi pubblici più efficienti.
Ora. questo implica una rivoluzione, che non può non investire la stessa articolazione politica del Paese. Alcuni enti andranno potenziati - per esempio i Comuni e le Regioni - altri ridotti o addirittura aboliti (come le province). Né è detto che, gattopardescamente, se tutto cambia tutto debba restare come prima: la sfida di rifondare il Paese va percorsa fino in fondo. Franco Monteverde ha lanciato, col suo saggio "Limonte" (De Ferrari), una provocazione intelligentc e se decidessimo di fondere la Liguria al Piemonte? La provocazione va ben al di là del caso specifico e chiama in causa un equivoco consolidato. Cioè: i confini e le meccaniche istituzionali non sono una fatalità. ma un accidente della Storia. La vita dei vivi non dovrebbe essere interamente condizionata dalle decisioni dei morti: se quello che abbiamo ereditato smette di funzionare. o funziona meno bene che in passato, allora si può e si deve riflettere su come cambiarlo. Come la società si è fatta liquida, riflette Monteverde, così deve accadere per le istituzioni: «Se si vuole far uscire la società civile da una condizione di scollamento c di subordinazione nei confronti delle istituzioni e degli apparati pubblici» occorre «provocare un’interruzione istituzionale... Il Limonte sarebbe appunto una cesura attraverso la quale dare sfogo alla creatività che è già presente e attiva». L’analisi di Monteverde muove dal presupposto che l’Italia è dominata non solo dalla casta dei politici, ma anche da un’altra casta, più grigia e più robusta: quella dei burocrati.
Le burocrazie, come ogni organismo, sono spinte da due istinti: quello all’autoconservazione, e quello alla crescita. Per quanto esse possano essere utili, se la loro espansione non viene frenata, finiscono per prosciugare le risorse vitali di una società. Ma un Paese che non ha il coraggio di cambiare, è destinato a cadere vittima della bulimia amministrativa. Sparigliare le carte, rovesciare i rapporti di forza. creare centri di potere alternativi tra di loro è un modo per ricostruire un equilibrio che noi abbiamo perso da tempo. Il Limonte vuol dire questo, e più in generale il cuneo federalista s’inserisce all’interno di questa dinamica. Bisogna, però, aver rispetto per le parole, e non chiamare federalismo quel che federalismo non è, come il progetto di Caldcroli. Per quanto utile e dignitoso. esso è un tentativo di gestire meglio l’esistente. È un palliativo, forse un antidolorifico, ma non rappresenta una cura per il male italiano. Per quello ci vuole qualcos’altro. Ci vuole la fantasia, anche istituzionale, al potere.

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