martedì 25 novembre 2008

La storia non perdona, neanche Veltroni

“Il comunismo non è mai morto” è una recensione di Mario Ajello pubblicata oggi su “Il Messaggero”.

Escono a raffica libri sul Partito Democratico. Instant book o saggi pensosi. Volumi di tipo programmatico e sfoghi politico-umorali su qyanto poteva essere bello il Pd e quanto non riesce a diventarlo. Ma visto che l’attuale sinistra italiana “viene da lontano”, l’approccio storico - cioè l’andarsi a infilare nelle contraddizioni di lungo periodo e interrogarsi sui nodi irrisolti lungo un percorso politico che va dai primi del ’900 ad oggi - risulta forse quello più curioso. Perchè, insomma, che cosa c’entrano, con i democrat veltroniani, «I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi» o «I comunisti italiani e i piani d’invasione del Patto di Varsavia» o «La fortuna di Togliatti e la sfortuna di Thorez» o «La memorialistica comunista prima e dopo la caduta del Muro»? Così s’intitolano alcuni capitoli del libro curato da Fabrizio Cicchitto, e presentato ieri alla Sala Capranichetta: L’influenza del comunismo nella storia d’Italia (editore Rubettino). Ne scrivono fra gli altri, oltre a Cicchitto, Gaetano Quagliariello, Piero Craveri, Victor Zaslavsky, Sergio Bertelli...
Cicchitto parte da un tabù che, a lui e agli altri, risulta insopportabile e da rimuovere: quello secondo cui è politicamente scorretto, o bassamente propagandistico, parlare ancora del comunismo. E chi l’ha detto? L’hanno detto, e lo dicono, gli ex e i post del Pci, ora convertiti al «negazionismo» sulla propria storia. Come reagire? Ricordando - così scrive Cicchitto, il quale viene dal Psi - che «il comunismo nelle sue varie tendenze ha segnato la vicenda italiana dal ’43 ai nostri giorni e continua a condizionarla tuttora». Il comunismo viene seguito come un filo rosso che, in mille forme e in centomila mascheramenti, solca i secoli e dall’antico stalinismo arriva per esempio al moderno giustizialismo.
E il comunismo funge anche da sottofondo di quell’approccio politico-culturale di tipo berlingueriano, fondato sull’avversione ideologica e antropologica verso il Psi di Craxi, che ha impedito al Pci e alle sue successive versioni di abbracciare l’orizzonte socialdemocratico. Senza il quale - questa la diagnosi dì Cicchitto - si finisce in «una sorta di terra di nessuno»: quella del veltronismo «liquido» e tutto «mediatico», del «mimetismo» e della «scientifica traduzione nel proprio lessico di posizioni di centro-destra», dell’assemblaggio indistinto e un po’ new age fra il cattocomunismo di Rodano e l’americanismo di Obama e via così. Fino alla scelta di allearsi con il «reazionario e forcaiolo» Di Pietro. Di chi è la colpa di questa deriva? Di chi, praticamente tutti, ha cercato di svicolare fra gli scogli della propria storia e di non guardare in faccia, coraggiosamente, il proprio Dna.
In certe pagine, questo libro può leggersi anche come un racconto di spionaggio e di trame insurrezionali e di piani di lotta armata da parte del Pci; come un “giallo” nel quale non si salva nessuno; come un affresco sugli intrighi internazionali fra il Cremlino e le Botteghe Oscure e sull’odio fratricidia dentro la sinistra italiana, fin dai tempi di Antonio Gramsci. Lo cita la storica Simona Colarizi, ricordando l’epiteto che il fondatore del Pci rivolse ai socialisti dopo il rapimento di Matteotti nel ’24: «I semi-fascisti deIl’Aventino. Gente che ha tutto l’interesse che il mussolinismo duri a lungo». In questa lotta dei comunisti italiani contro i «nemici rifornisti», e in nome della «demonizzazione della socialdemocrazia», si arriva ovviamente al periodo berlingueriano e craxiano e alla timida epopea dei "miglioristi", Napolitano, Macaluso e gli altri dirigenti disposti al dialogo con il Psi. I quali provarono a dare battaglia contro l`anti-socialismo del gruppo dirigente berlingueriano. Ma avrebbe ammesso, di recente, in un libro autobiografico, proprio l’attuale presidente della Repubblica: «Debbo comunque aggiungere che ero intimamente condizionato dal culto dell’unità del partito a cui ero stato educato e a cui avevo aderito in decenni di militanza...».
La morale della storia? È che la storia non perdona.

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