Ho deciso di riportare in un post dedicato l’intervento di Silvia Ferretto Clementi in Consiglio regionale lombardo, oggi, perché lo trovo un buon modo di commemorare una giornata come quella odierna. Lo condivido pienamente. E lo dedico a quanti, moltissimi, oggi, chi per abito politico, chi per dovere d’ufficio, non hanno saputo esimersi, fare di meglio che usare ancora una volta la tanta arroganza della retorica per celebrare una ricorrenza che segnò tragicamente la fine di un’epoca.
Condivido pienamente il progetto di legge e in modo particolare l’idea del sito sui caduti lombardi… è importante ritrovare il lato umano anche in ciò che, come la guerra, di umano non ha nulla. Così com’è importante ricordare che i caduti non furono numeri, ma padri, figli, fidanzati, fratelli… uomini. Uomini con una loro vita, i loro sogni, i loro amori, le loro paure e le loro sofferenze. Uomini non uniformi. Uomini accomunati tutti dalla tragica consapevolezza di poter morire in ogni momento.
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, così scriveva Ungaretti nella sua bellissima poesia “Soldati”. La sofferenza e il massacro degli alpini sull’Ortigara, dei fanti della brigata Sassari sullo Zebio, dei granatieri del Cengio, i morti del Verena, del Cimone, del Grappa, del Vezzena. Un’immane follia, una tragedia per loro e per le loro famiglie.
Sono cresciuta in quei luoghi, giocando nei forti e nelle trincee e raccogliendo le infinite testimonianze di quegli eventi. Lo spirito di quel paesaggio mi ha accompagnata negli anni ed è per questo che non posso accodarmi alla retorica patriottica nazionalistica di esaltazione di quegli eventi .
Certo ricordare e onorare il sacrificio dei soldati, non solo italiani, è doveroso. Non è vero che a morire furono solo i più poveri. La morte non fece distinzioni, anzi. Inizialmente i primi a morire furono proprio gli ufficiali in quanto, secondo il modello di guerra ottocentesco, essi dovevano stare in prima fila e furono così i primi a farsi falciare dalle mitragliatrici. Fu un massacro immenso, anche perché, da Napoleone in poi, si iniziò sistematicamente ad inseguire il nemico in fuga e il fine non fu più solo la vittoria, ma la distruzione del nemico.
In guerra il peggio e il meglio dell’uomo vengono esaltati alla massima potenza. Fu così che, accanto ad episodi di immensa generosità, altruismo e spirito di sacrificio, ci fu anche la follia criminale di alcuni generali che, senza alcuna ragione e dando spesso più valore alle munizioni che alla vita d’un uomo, mandarono migliaia di uomini inutilmente al massacro.
Chi è cresciuto tra le ferite e le cicatrici di quei luoghi, chi ha convissuto e respirato quell’atmosfera, ha anche per osmosi recepito il senso di quella che, come giustamente disse papa Benedetto XV, fu “un’inutile strage”. Per questo, se da un lato sento un profondo legame affettivo di rispetto e di devozione per la bandiera in quanto simbolo della mia Nazione e provo un’emozione profonda nel vederla sventolare, dall’altro non posso e non riesco a esaltarmi e, al contrario, rabbrividisco, ascoltando le note del silenzio provenienti dall’ossario di Asiago che ogni sera riecheggiano tra le mie montagne e inorridisco, ripensando o rileggendo le cronache di quel conflitto.
Certo, esso fu un passo verso il raggiungimento dell’unità nazionale, ma, per quanto importante, il vedere la prima manifestazione di unità tra le lapidi dei cimiteri di guerra, dove soldati sardi, pugliesi e siciliani giacciono accanto a quelli lombardi e a quelli veneti, non può e non riesce ad entusiasmarmi.
Purtroppo la storia non è maestra di vita e gli errori e gli orrori continuano a ripetersi. Noi ricordiamo la fine della guerra, ma quella, in realtà, non fu la fine, ma solo una tregua che durò vent’anni. La prima guerra mondiale fece quasi 28 milioni di morti di cui 6 milioni e mezzo di civili. La seconda, che seguì dopo una breve tregua, ne fece addirittura 55 milioni e mezzo, di cui ben 30 milioni 365 mila di civili. La pace di Versailles e la stessa nascita della Società delle Nazioni, pur con obiettivi totalmente condivisibili, alimentarono i nazionalismi, già causa del primo conflitto mondiale.
Tornando alla proposta di legge, le sue finalità sono condivisibili, così come è condivisibile l’intera proposta. Pubblicare i nomi dei nostri caduti è sicuramente doveroso e importante, ma credo sarebbe altrettanto importante che - ove possibile – accanto ai nomi dei tanti soldati che per la Patria hanno dato la vita, venissero pubblicate anche fotografie, storie, lettere e testimonianze, perché ritengo che il modo migliore per far comprendere l’orrore della guerra sia quello di far conoscere ciò che si cela dietro ogni uniforme, quell’uniforme che, al contrario, ha proprio la finalità di nascondere ed annullare, quanto più possibile, ciò che contiene e cioè… uomini.
«La storia – come sosteneva Benedetto Croce - non è cronaca. Non è quindi elencazione di fatti, esposizione di documenti non interpretati e non compresi. “La storia si fa ca capa.”. Occorre interpretare e confrontare. La storia non è propaganda altrimenti sarebbe pseudo storia. Il suo scopo è comprendere e conoscere, perché diversamente chi non sa quello che cerca, non sa quello che trova.»
E per capire, è importante porre accanto alla storia dei grandi uomini, così come era intesa da Hegel, anche quella delle masse anonime delle architetture sociali e delle economie descritta da Marx e ripresa poi dalla scuola francese de Les Annales à “pas de problemes, pas d’histoire”. La storia non deve assolutamente essere trasformata in apologia e propaganda, perché quando essa, così come intesa e ben descritta da Nietzsche nel suo libro “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, si pone come unico fine il proporre modelli comportamentali del passato, rischia di essere falsata e di non far più distinguere un passato monumentale da un’invenzione mitica e pertanto, oltre al “pas de problemes, pas d’histoire”. Occorre tener presente anche che “pas de documents, pas d’histoire”. Per questo dunque è importante, come sosteneva Kant, trattare la storia come fine e mai come mezzo.
Comunque sia e, al di là delle diverse chiavi di lettura su quale sia il reale motore della storia – individuato nella provvidenza da Sant’Agostino, nei corsi e ricorsi storici da Vico e nella lotta di classe da Marx - resta la certezza che, come scriveva George Orwell, conoscere e quindi capire la storia permette di affrontare in modo più consapevole il futuro perché “chi controlla il presente controlla il passato e chi controlla il passato controlla il futuro”.
Questo è l’intervento che avevo preparato per oggi pensando avesse un senso compiuto, ma poiché, come ricordavo “pas de problems pas d’histoire”, la questione che mi pongo e vi pongo è che se fu un’“inutile strage”, ed io condivido pienamente questa definizione, la conseguenza logica è che, non solo milioni di persone morirono inutilmente, ma riconoscendo l’inutilità della loro morte, è come se li uccidessimo una seconda volta. Molti morirono orgogliosi di compiere il loro dovere, ma tanti altri morirono con la consapevolezza e con la rabbia di dover morire per nulla.
E allora io mi chiedo: qual è il senso di tutto ciò? Morirono per completare il Risorgimento, come sosteneva D’Annunzio? Per una questione di “igiene del mondo” come sosteneva Marinetti? Per anticipare i tempi della rivoluzione del proletariato come sostenevano i sindacalisti rivoluzionari di George Sorel? Oppure morirono per un disegno divino?
Io non ho risposte e invidio profondamente tutti coloro che hanno tutte le certezze. Io purtroppo ho solo dubbi e questo è uno dei tanti.
Silvia Ferretto Clementi
Milano, 04 novembre 2008
Condivido pienamente il progetto di legge e in modo particolare l’idea del sito sui caduti lombardi… è importante ritrovare il lato umano anche in ciò che, come la guerra, di umano non ha nulla. Così com’è importante ricordare che i caduti non furono numeri, ma padri, figli, fidanzati, fratelli… uomini. Uomini con una loro vita, i loro sogni, i loro amori, le loro paure e le loro sofferenze. Uomini non uniformi. Uomini accomunati tutti dalla tragica consapevolezza di poter morire in ogni momento.
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, così scriveva Ungaretti nella sua bellissima poesia “Soldati”. La sofferenza e il massacro degli alpini sull’Ortigara, dei fanti della brigata Sassari sullo Zebio, dei granatieri del Cengio, i morti del Verena, del Cimone, del Grappa, del Vezzena. Un’immane follia, una tragedia per loro e per le loro famiglie.
Sono cresciuta in quei luoghi, giocando nei forti e nelle trincee e raccogliendo le infinite testimonianze di quegli eventi. Lo spirito di quel paesaggio mi ha accompagnata negli anni ed è per questo che non posso accodarmi alla retorica patriottica nazionalistica di esaltazione di quegli eventi .
Certo ricordare e onorare il sacrificio dei soldati, non solo italiani, è doveroso. Non è vero che a morire furono solo i più poveri. La morte non fece distinzioni, anzi. Inizialmente i primi a morire furono proprio gli ufficiali in quanto, secondo il modello di guerra ottocentesco, essi dovevano stare in prima fila e furono così i primi a farsi falciare dalle mitragliatrici. Fu un massacro immenso, anche perché, da Napoleone in poi, si iniziò sistematicamente ad inseguire il nemico in fuga e il fine non fu più solo la vittoria, ma la distruzione del nemico.
In guerra il peggio e il meglio dell’uomo vengono esaltati alla massima potenza. Fu così che, accanto ad episodi di immensa generosità, altruismo e spirito di sacrificio, ci fu anche la follia criminale di alcuni generali che, senza alcuna ragione e dando spesso più valore alle munizioni che alla vita d’un uomo, mandarono migliaia di uomini inutilmente al massacro.
Chi è cresciuto tra le ferite e le cicatrici di quei luoghi, chi ha convissuto e respirato quell’atmosfera, ha anche per osmosi recepito il senso di quella che, come giustamente disse papa Benedetto XV, fu “un’inutile strage”. Per questo, se da un lato sento un profondo legame affettivo di rispetto e di devozione per la bandiera in quanto simbolo della mia Nazione e provo un’emozione profonda nel vederla sventolare, dall’altro non posso e non riesco a esaltarmi e, al contrario, rabbrividisco, ascoltando le note del silenzio provenienti dall’ossario di Asiago che ogni sera riecheggiano tra le mie montagne e inorridisco, ripensando o rileggendo le cronache di quel conflitto.
Certo, esso fu un passo verso il raggiungimento dell’unità nazionale, ma, per quanto importante, il vedere la prima manifestazione di unità tra le lapidi dei cimiteri di guerra, dove soldati sardi, pugliesi e siciliani giacciono accanto a quelli lombardi e a quelli veneti, non può e non riesce ad entusiasmarmi.
Purtroppo la storia non è maestra di vita e gli errori e gli orrori continuano a ripetersi. Noi ricordiamo la fine della guerra, ma quella, in realtà, non fu la fine, ma solo una tregua che durò vent’anni. La prima guerra mondiale fece quasi 28 milioni di morti di cui 6 milioni e mezzo di civili. La seconda, che seguì dopo una breve tregua, ne fece addirittura 55 milioni e mezzo, di cui ben 30 milioni 365 mila di civili. La pace di Versailles e la stessa nascita della Società delle Nazioni, pur con obiettivi totalmente condivisibili, alimentarono i nazionalismi, già causa del primo conflitto mondiale.
Tornando alla proposta di legge, le sue finalità sono condivisibili, così come è condivisibile l’intera proposta. Pubblicare i nomi dei nostri caduti è sicuramente doveroso e importante, ma credo sarebbe altrettanto importante che - ove possibile – accanto ai nomi dei tanti soldati che per la Patria hanno dato la vita, venissero pubblicate anche fotografie, storie, lettere e testimonianze, perché ritengo che il modo migliore per far comprendere l’orrore della guerra sia quello di far conoscere ciò che si cela dietro ogni uniforme, quell’uniforme che, al contrario, ha proprio la finalità di nascondere ed annullare, quanto più possibile, ciò che contiene e cioè… uomini.
«La storia – come sosteneva Benedetto Croce - non è cronaca. Non è quindi elencazione di fatti, esposizione di documenti non interpretati e non compresi. “La storia si fa ca capa.”. Occorre interpretare e confrontare. La storia non è propaganda altrimenti sarebbe pseudo storia. Il suo scopo è comprendere e conoscere, perché diversamente chi non sa quello che cerca, non sa quello che trova.»
E per capire, è importante porre accanto alla storia dei grandi uomini, così come era intesa da Hegel, anche quella delle masse anonime delle architetture sociali e delle economie descritta da Marx e ripresa poi dalla scuola francese de Les Annales à “pas de problemes, pas d’histoire”. La storia non deve assolutamente essere trasformata in apologia e propaganda, perché quando essa, così come intesa e ben descritta da Nietzsche nel suo libro “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, si pone come unico fine il proporre modelli comportamentali del passato, rischia di essere falsata e di non far più distinguere un passato monumentale da un’invenzione mitica e pertanto, oltre al “pas de problemes, pas d’histoire”. Occorre tener presente anche che “pas de documents, pas d’histoire”. Per questo dunque è importante, come sosteneva Kant, trattare la storia come fine e mai come mezzo.
Comunque sia e, al di là delle diverse chiavi di lettura su quale sia il reale motore della storia – individuato nella provvidenza da Sant’Agostino, nei corsi e ricorsi storici da Vico e nella lotta di classe da Marx - resta la certezza che, come scriveva George Orwell, conoscere e quindi capire la storia permette di affrontare in modo più consapevole il futuro perché “chi controlla il presente controlla il passato e chi controlla il passato controlla il futuro”.
Questo è l’intervento che avevo preparato per oggi pensando avesse un senso compiuto, ma poiché, come ricordavo “pas de problems pas d’histoire”, la questione che mi pongo e vi pongo è che se fu un’“inutile strage”, ed io condivido pienamente questa definizione, la conseguenza logica è che, non solo milioni di persone morirono inutilmente, ma riconoscendo l’inutilità della loro morte, è come se li uccidessimo una seconda volta. Molti morirono orgogliosi di compiere il loro dovere, ma tanti altri morirono con la consapevolezza e con la rabbia di dover morire per nulla.
E allora io mi chiedo: qual è il senso di tutto ciò? Morirono per completare il Risorgimento, come sosteneva D’Annunzio? Per una questione di “igiene del mondo” come sosteneva Marinetti? Per anticipare i tempi della rivoluzione del proletariato come sostenevano i sindacalisti rivoluzionari di George Sorel? Oppure morirono per un disegno divino?
Io non ho risposte e invidio profondamente tutti coloro che hanno tutte le certezze. Io purtroppo ho solo dubbi e questo è uno dei tanti.
Silvia Ferretto Clementi
Milano, 04 novembre 2008
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