“Repubblica” oggi ha pubblicato una intervista di Goffredo De Marchis a Veltroni. Riprendo di seguito il testo. La vignetta a lato è tratta da “La Padania” di oggi. L’accostamento dissacratorio è serenamente pacatamente ovviamente casuale. Mi accontento di questa casualità non faccio altro commento.
Sul monitor scorrono le agenzie di stampa, Walter Veltroni sorride: «Berlusconi ironizza sul nostro entusiasmo e dice: “Obama sembra uno del Pd”. Si sbaglia: non sembra, è uno di noi. Il leader di un grande movimento politico e civile che è il pensiero democratico».
Il segretario del Pd ha puntato sul nuovo presidente americano da subito e oggi può festeggiare più degli altri. Lo ha incontrato nel 2005 quando la corsa alla Casa Bianca era nella mente di Dio. «L`anno dopo chiamai una casa editrice per dirgli di tradurre e pubblicare la sua autobiografia. Inizialmente, erano scettici. Oggi credo siano molto contenti...» scherza.
Perché scommise su Obama dopo quel colloquio? «Su Obama avevo scommesso già prima di quell’incontro. Mi aveva colpito il discorso alla convention del 2004, la sua forza, la sua passione. Mi sembrava che lui parlasse il linguaggio migliore dei democratici. Obama coniuga la condivisione della vita reale e la tensione ideale. Eppoi, la mia formazione politica è dentro l’esperienza democratica e il suo sistema di valori. Ho sperato per tutta la vita che nascesse in Italia un partito con lo stesso nome e la stessa vocazione. Ho sempre creduto che il riformismo fosse radicalità di principi e concretezza di programmi. Questo è il mio percorso. Io cerco di parlare un linguaggio che in Italia viene spesso considerato idealista e sognatore ma che per me è l’unico capace di trasformare la politica in passione, in programma, in valori».
Molti dicono che in fondo l’America non cambia quando si sostituisce l’inquilino della Casa Bianca. Perché adesso dovrebbe esserci una rivoluzione? «La vera rivoluzione non la fa il presidente, la fanno gli americani. Eleggendo per la prima volta un afroamericano, non chiudendosi in se stessi di fronte a una crisi economica gravissima. Invece di arroccarsi si aprono e guardano al futuro. Queste elezioni hanno la stessa forza del voto per John Kennedy».
Ma oggi non sono più gli Usa il centro del mondo. Premono la Cina e l’India. «Che la Cina, l’India e altri Paesi siano protagonisti non ci sono dubbi. Io però credo all’insostituibilità dell’America. Il mondo non può accettare l’isolamento degli Usa, non può rinunciare alla sua leadership morale. In questi ultimi anni l’America era quella di Guantanamo, non più di Martin Luther King, era considerata da tanti lontana e nemica, redistribuiva la ricchezza in maniera totalmente iniqua. Ora esce dall’angolo. C’è anche la straordinaria prova di democrazia cui abbiamo assistito. Le file ai seggi e il grado di civiltà dimostrata dallo sconfitto. Ho mandato un messaggio a McCain perché il suo discorso mi ha impressionato. Si è preso le contestazioni della sua platea per aver citato le parole di Obama, per aver ricordato che l’America è una. Se guardo alla politica italiana, la differenza appare enorme. Obama vuole unire il suo Paese. In Italia si fa il contrario. Il vincitore Berlusconi, per altro rappresentante di una parte non maggioritaria del Paese, si preoccupa di aggredire gli avversari, non di tenere insieme l’Italia».
La vittoria di Barack è una lezione per il premier? «E una lezione per tutta la politica italiana. Per esempio, trovo grottesco che sia nato un comitato del Pdl per Obama. Direi che ora la confusione che si addebitava al centrosinistra è tutta dall’altra parte. Cos’è la destra? Statalista o mercatista? Sta con Bush o con Obama? Sceglie il populismo della Palin o il moderatismo di McCain? Se Berlusconi dice che Bush è stato il miglior leader nella storia degli Stati uniti non può stare in alcun modo con Obama che ha costruito la sua elezione sulla critica radicale al presidente uscente. Eppoi dicono che sono io quello del ma anche... La verità è che la destra italiana somiglia più alla Palin che a McCain. Molti dirigenti del Pdl, se fossero stati in piazza ad ascoltare lo sconfitto che rendeva omaggio al vincitore, avrebbero fischiato. Vede, mentre in Italia si propongono le classi differenziate, in America viene eletto il figlio di un agricoltore africano. Qualcuno è fuori dal tempo: noi o loro?».
Perché Berlusconi dovrebbe essere tagliato fuori dopo l’elezione di Obama? Per una questione di età o perché è troppo amico di Bush? «Gioca anche il fattore età. E un mondo nuovo quello che si affaccia con Obama. Internet, le social community. Sono strumenti sconosciuti alla generazione del premier. Eppoi Berlusconi blocca gli accordi di Kyoto mentre Obama punta sull’ambiente come fattore di crescita. Berlusconi sponsorizza l’unilateralismo americano che verrà sostituito dal multipolarismo. Obama ovviamente è un sostenitore dell’integrazione multiculturale che la destra osteggia. Le idee di Berlusconi sono state sconfitte perché lui si riconosce in Bush. Che è il vero perdente di questo voto».
Dunque il Cavaliere non durerà cinque anni. «Non lo so. Comunque un’altra fase era già avviata prima del voto americano. Loro possono smentire quanto vogliono, ma i sondaggi indicano una caduta verticale per il governo. Il malessere della maggioranza si sente, eccome. Se dovessi elencare le telefonate che ricevo da dirigenti del centrodestra sgomenti per come Berlusconi si muove nella vita istituzionale, potrei impiegare due giorni».
Obama influenzerà anche il dibattito nel vostro Partito democratico? «Io dico che c’è una sola fonte viva per interpretare il nostro tempo: la cultura democratica. Non c’è bisogno di cercare altrove. Qui sta la chiave con cui il riformismo italiano ed europeo può diventare maggioritario. Per parte nostra, dobbiamo imparare a separare l’immagine virtuale della nostra discussione dal mondo reale, quello del Circo Massimo e delle primarie. Questo mondo reale ci dice che esiste un riformismo di massa e che va spezzato dentro il Pd il circuito dell’autodistruzione. A me piace la ricchezza di idee, ma anche il sentirsi parte di una comunità che unita si muove per far perdere le elezioni agli avversari e vincerle noi».
Sul monitor scorrono le agenzie di stampa, Walter Veltroni sorride: «Berlusconi ironizza sul nostro entusiasmo e dice: “Obama sembra uno del Pd”. Si sbaglia: non sembra, è uno di noi. Il leader di un grande movimento politico e civile che è il pensiero democratico».
Il segretario del Pd ha puntato sul nuovo presidente americano da subito e oggi può festeggiare più degli altri. Lo ha incontrato nel 2005 quando la corsa alla Casa Bianca era nella mente di Dio. «L`anno dopo chiamai una casa editrice per dirgli di tradurre e pubblicare la sua autobiografia. Inizialmente, erano scettici. Oggi credo siano molto contenti...» scherza.
Perché scommise su Obama dopo quel colloquio? «Su Obama avevo scommesso già prima di quell’incontro. Mi aveva colpito il discorso alla convention del 2004, la sua forza, la sua passione. Mi sembrava che lui parlasse il linguaggio migliore dei democratici. Obama coniuga la condivisione della vita reale e la tensione ideale. Eppoi, la mia formazione politica è dentro l’esperienza democratica e il suo sistema di valori. Ho sperato per tutta la vita che nascesse in Italia un partito con lo stesso nome e la stessa vocazione. Ho sempre creduto che il riformismo fosse radicalità di principi e concretezza di programmi. Questo è il mio percorso. Io cerco di parlare un linguaggio che in Italia viene spesso considerato idealista e sognatore ma che per me è l’unico capace di trasformare la politica in passione, in programma, in valori».
Molti dicono che in fondo l’America non cambia quando si sostituisce l’inquilino della Casa Bianca. Perché adesso dovrebbe esserci una rivoluzione? «La vera rivoluzione non la fa il presidente, la fanno gli americani. Eleggendo per la prima volta un afroamericano, non chiudendosi in se stessi di fronte a una crisi economica gravissima. Invece di arroccarsi si aprono e guardano al futuro. Queste elezioni hanno la stessa forza del voto per John Kennedy».
Ma oggi non sono più gli Usa il centro del mondo. Premono la Cina e l’India. «Che la Cina, l’India e altri Paesi siano protagonisti non ci sono dubbi. Io però credo all’insostituibilità dell’America. Il mondo non può accettare l’isolamento degli Usa, non può rinunciare alla sua leadership morale. In questi ultimi anni l’America era quella di Guantanamo, non più di Martin Luther King, era considerata da tanti lontana e nemica, redistribuiva la ricchezza in maniera totalmente iniqua. Ora esce dall’angolo. C’è anche la straordinaria prova di democrazia cui abbiamo assistito. Le file ai seggi e il grado di civiltà dimostrata dallo sconfitto. Ho mandato un messaggio a McCain perché il suo discorso mi ha impressionato. Si è preso le contestazioni della sua platea per aver citato le parole di Obama, per aver ricordato che l’America è una. Se guardo alla politica italiana, la differenza appare enorme. Obama vuole unire il suo Paese. In Italia si fa il contrario. Il vincitore Berlusconi, per altro rappresentante di una parte non maggioritaria del Paese, si preoccupa di aggredire gli avversari, non di tenere insieme l’Italia».
La vittoria di Barack è una lezione per il premier? «E una lezione per tutta la politica italiana. Per esempio, trovo grottesco che sia nato un comitato del Pdl per Obama. Direi che ora la confusione che si addebitava al centrosinistra è tutta dall’altra parte. Cos’è la destra? Statalista o mercatista? Sta con Bush o con Obama? Sceglie il populismo della Palin o il moderatismo di McCain? Se Berlusconi dice che Bush è stato il miglior leader nella storia degli Stati uniti non può stare in alcun modo con Obama che ha costruito la sua elezione sulla critica radicale al presidente uscente. Eppoi dicono che sono io quello del ma anche... La verità è che la destra italiana somiglia più alla Palin che a McCain. Molti dirigenti del Pdl, se fossero stati in piazza ad ascoltare lo sconfitto che rendeva omaggio al vincitore, avrebbero fischiato. Vede, mentre in Italia si propongono le classi differenziate, in America viene eletto il figlio di un agricoltore africano. Qualcuno è fuori dal tempo: noi o loro?».
Perché Berlusconi dovrebbe essere tagliato fuori dopo l’elezione di Obama? Per una questione di età o perché è troppo amico di Bush? «Gioca anche il fattore età. E un mondo nuovo quello che si affaccia con Obama. Internet, le social community. Sono strumenti sconosciuti alla generazione del premier. Eppoi Berlusconi blocca gli accordi di Kyoto mentre Obama punta sull’ambiente come fattore di crescita. Berlusconi sponsorizza l’unilateralismo americano che verrà sostituito dal multipolarismo. Obama ovviamente è un sostenitore dell’integrazione multiculturale che la destra osteggia. Le idee di Berlusconi sono state sconfitte perché lui si riconosce in Bush. Che è il vero perdente di questo voto».
Dunque il Cavaliere non durerà cinque anni. «Non lo so. Comunque un’altra fase era già avviata prima del voto americano. Loro possono smentire quanto vogliono, ma i sondaggi indicano una caduta verticale per il governo. Il malessere della maggioranza si sente, eccome. Se dovessi elencare le telefonate che ricevo da dirigenti del centrodestra sgomenti per come Berlusconi si muove nella vita istituzionale, potrei impiegare due giorni».
Obama influenzerà anche il dibattito nel vostro Partito democratico? «Io dico che c’è una sola fonte viva per interpretare il nostro tempo: la cultura democratica. Non c’è bisogno di cercare altrove. Qui sta la chiave con cui il riformismo italiano ed europeo può diventare maggioritario. Per parte nostra, dobbiamo imparare a separare l’immagine virtuale della nostra discussione dal mondo reale, quello del Circo Massimo e delle primarie. Questo mondo reale ci dice che esiste un riformismo di massa e che va spezzato dentro il Pd il circuito dell’autodistruzione. A me piace la ricchezza di idee, ma anche il sentirsi parte di una comunità che unita si muove per far perdere le elezioni agli avversari e vincerle noi».
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