Andiamoci piano. Non siamo in America. Dove il candidato sconfitto riconosce la vittoria dell’altro e dichiara la sua disponibilità a collaborare nei fatti col vincente per il bene della nazione. Forse perché non siamo una nazione. Sta di fatto che di fronte ad una scelta di popolo, netta, ampia, storica, non ci si è messi da parte. Non si sono fatte rientrare le truppe cammellate della militanza nella normalità delle sezioni. Anzi. Ciò che si è fatto è dichiarare il richiamo alle armi dopo gli ozi estivi da sempre dedicati alla questua delle feste di partito. Si è preannunciato un “autunno caldo” cominciando ad emettere i gas serra per crearne le condizioni. Forti del sostegno dei giornali, degli “infiltrati”, sapientemente, da tempo, nelle redazioni anche dei media della controparte. Non c’è nemmeno la fatica di svegliare cellule dormienti, perché quello che un tempo si chiamava “il potere della carta stampata” già sostenendo Prodi aveva dichiarato la sua scelta di campo. E, dunque, di dattilografi che s’offrono volontari, disposti alla bisogna, se ne trova.
Il progetto è chiaro. Sempre lo stesso. Un progetto che viene da lontano. La presa del Palazzo d’Inverno. Riflettiamo. Un presidente del Consiglio eletto a furor di popolo, con un consenso bulgaro non imposto da alcun apparato di partito, dal terrore di nessun Kgb. Nessuna speranza di sfrattarlo da Palazzo Chigi con la democrazia dell’alternanza, perché democrazia significa consenso, voto, proprio quello che manca. Un governo che mostra oltretutto d’aver imparato dagli sbagli fatti in precedenza. D’aver capito che con le sole parole non si va da nessuna parte, che tra il dire e il fare c’è l’ostacolo del mare così sensibile ai soffi del vento di tempesta. E, dunque, decisioni, abbondanza di fatti concreti, solo fatti. Nessuna speranza, insomma, di togliere il potere irreversibilmente al centrodestra prima della pensione. Perché non è nell’alternanza che si crede, ma nel mito interiore del baffone Stalin, forse sepolto da qualche parte, ma mai morto nel cuore e nella testa. Nell’irreversibilità. Se così non fosse saremo America. Noi pure.
Quell’annuncio ormai impolverato d’un “autunno caldo”, andrebbe riconsiderato. E ciò che è registrato nella cronaca politica di queste ultime settimane estrapolato in un’ottica di luglio. Per capire meglio. Perché d’allora è intervenuto un fatto imprevisto. La crisi. Una crisi finanziaria che perdura. Che ha frenato l’offensiva “al cader delle foglie”, che si voleva più di una metafora. Fermata e rimandata forse a tempi migliori. Perché il buon senso quando manca una protesta vera, tangibile, concreta, fa tacere anche la pulsione politica. Perché, quando si viaggia sull’orlo di un baratro, forse è il caso di non disturbare il manovratore più di tanto. Anche perché la gente della strada, non la militanza avanguardista rotta a tutto, in genere non sposa filosofie del tanto peggio tanto meglio. Non capirebbe. Non capirebbe la scelta di vivere una quotidianità infame se bene o male, nonostante la propaganda mediatica del disastro, il suo piccolo benessere ce l’ha ancora. Anche se ha visto qualcuno aggiungere un buco alla cintura. Dalla parte della fibbia. Qualche pizza in meno in pizzeria, la macchina più spesso lasciata nel box per quattro passi salutari.
Lo scontro finale è stato annullato, rinviato, a data da destinarsi. Una sorta di 8 settembre imprevisto, per capirci con un’analogia anche se impropria. E lo sbandamento tra la truppa c’è, è palpabile, quotidiano. Nella tattica confusa ed isterica del rilevare ogni minimo respiro stonato del premier, ogni scoreggia involontaria. Ed a togliere la delusione nella truppa è venuto Obama, il mito istantaneo, confezionato subito, per non far morire la speranza nella riscossa, la nuova bandiera rossa.
Dopo qualche petardo di piazza, che ha esaurito il tentativo delle marce su Roma, annacquato dagli eventi imprevisti, ci si è adagiati in molti con compassionevole rassegnazione ad aspettare la fine della stagione delle piogge. In fin dei conti, si pensa, siamo ormai prossimi alla tredicesima ed alle incombenze del Natale. Del resto Obama non sarà presidente prima di gennaio, e, dunque, se aspetta lui, il Piave può aspettare ancora qualche mese. Perché fasciarsi la testa ora? Si può fare spallucce, pensare la protesta artefatta, i disordini di piazza il fuoco fatuo d’una sinistra ormai cadavere. Ma i rigurgiti “democratici” quotidiani significano pur sempre che la pulsione antidemocratica è latente. La strategia sullo sfondo è ancora la stessa. Rafforzata dalla testardaggine di potere egemonico d’un partito che come le vipere cambia la pelle ad ogni stagione politica, ma rimane sempre, inguaribilmente, lo stesso.
Il progetto è chiaro. Sempre lo stesso. Un progetto che viene da lontano. La presa del Palazzo d’Inverno. Riflettiamo. Un presidente del Consiglio eletto a furor di popolo, con un consenso bulgaro non imposto da alcun apparato di partito, dal terrore di nessun Kgb. Nessuna speranza di sfrattarlo da Palazzo Chigi con la democrazia dell’alternanza, perché democrazia significa consenso, voto, proprio quello che manca. Un governo che mostra oltretutto d’aver imparato dagli sbagli fatti in precedenza. D’aver capito che con le sole parole non si va da nessuna parte, che tra il dire e il fare c’è l’ostacolo del mare così sensibile ai soffi del vento di tempesta. E, dunque, decisioni, abbondanza di fatti concreti, solo fatti. Nessuna speranza, insomma, di togliere il potere irreversibilmente al centrodestra prima della pensione. Perché non è nell’alternanza che si crede, ma nel mito interiore del baffone Stalin, forse sepolto da qualche parte, ma mai morto nel cuore e nella testa. Nell’irreversibilità. Se così non fosse saremo America. Noi pure.
Quell’annuncio ormai impolverato d’un “autunno caldo”, andrebbe riconsiderato. E ciò che è registrato nella cronaca politica di queste ultime settimane estrapolato in un’ottica di luglio. Per capire meglio. Perché d’allora è intervenuto un fatto imprevisto. La crisi. Una crisi finanziaria che perdura. Che ha frenato l’offensiva “al cader delle foglie”, che si voleva più di una metafora. Fermata e rimandata forse a tempi migliori. Perché il buon senso quando manca una protesta vera, tangibile, concreta, fa tacere anche la pulsione politica. Perché, quando si viaggia sull’orlo di un baratro, forse è il caso di non disturbare il manovratore più di tanto. Anche perché la gente della strada, non la militanza avanguardista rotta a tutto, in genere non sposa filosofie del tanto peggio tanto meglio. Non capirebbe. Non capirebbe la scelta di vivere una quotidianità infame se bene o male, nonostante la propaganda mediatica del disastro, il suo piccolo benessere ce l’ha ancora. Anche se ha visto qualcuno aggiungere un buco alla cintura. Dalla parte della fibbia. Qualche pizza in meno in pizzeria, la macchina più spesso lasciata nel box per quattro passi salutari.
Lo scontro finale è stato annullato, rinviato, a data da destinarsi. Una sorta di 8 settembre imprevisto, per capirci con un’analogia anche se impropria. E lo sbandamento tra la truppa c’è, è palpabile, quotidiano. Nella tattica confusa ed isterica del rilevare ogni minimo respiro stonato del premier, ogni scoreggia involontaria. Ed a togliere la delusione nella truppa è venuto Obama, il mito istantaneo, confezionato subito, per non far morire la speranza nella riscossa, la nuova bandiera rossa.
Dopo qualche petardo di piazza, che ha esaurito il tentativo delle marce su Roma, annacquato dagli eventi imprevisti, ci si è adagiati in molti con compassionevole rassegnazione ad aspettare la fine della stagione delle piogge. In fin dei conti, si pensa, siamo ormai prossimi alla tredicesima ed alle incombenze del Natale. Del resto Obama non sarà presidente prima di gennaio, e, dunque, se aspetta lui, il Piave può aspettare ancora qualche mese. Perché fasciarsi la testa ora? Si può fare spallucce, pensare la protesta artefatta, i disordini di piazza il fuoco fatuo d’una sinistra ormai cadavere. Ma i rigurgiti “democratici” quotidiani significano pur sempre che la pulsione antidemocratica è latente. La strategia sullo sfondo è ancora la stessa. Rafforzata dalla testardaggine di potere egemonico d’un partito che come le vipere cambia la pelle ad ogni stagione politica, ma rimane sempre, inguaribilmente, lo stesso.
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