“Solo le colonie s’inchinano” è il commento odierno di Geronimo su “Il Giornale”.
Chi scrive è cresciuto in un partito nella cui politica campeggiava come valore fondante l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti d’America. Un popolo, quello americano, che aiutò l’Europa a liberarsi dalla feroce tirannia del nazifascismo e il mondo dal comunismo. Quella antica convinzione e quei sentimenti sono ancora oggi vivi e vitali in tutti noi. Una premessa necessaria, questa, per fare qualche considerazione fuori dal coro orgiastico di queste ore in casa nostra dove si sono rincorsi feste e festini e titoloni pressoché uguali che annunciano, «urbi et orbi», che il mondo è cambiato con la vittoria di Obama. Calma e gesso.
Non ci sfugge, naturalmente, che l’elezione di Barack Obama è avvenuta sull’onda del desiderio che condiziona sempre un popolo e una nazione quando sono in gravi difficoltà sociali ed economiche come l’America di oggi. Un cambiamento che certamente si arricchisce del fatto che per la prima volta l’inquilino della Casa Bianca è un uomo di colore. Una novità, però, che non è un fulmine a ciel sereno. Già negli otto anni di Bush i segretari di Stato, cioè i più diretti collaboratori del presidente e quelli che portano il volto dell’America nel mondo, sono stati due autorevoli personaggi di colore, Colin Powell e Condoleezza Rice a testimonianza di un avvenuto superamento degli antichi pregiudizi razziali. La vittoria di Obama lo ha completato. L’onda del cambiamento è cresciuta, poi, grazie agli errori di George W. Bush sul piano della politica estera (la guerra in Irak sorta sulla base di informazioni sbagliate circa la presenza di armi nucleari nelle mani di Saddam Hussein) e su quello economico. Su quest’ultimo terreno il disastro è stato ancora più grande perché ha spinto la società americana a uno «scialo, senza misura testimoniato dai due deficit gemelli, quello commerciale e quello dei conti pubblici, e quel che è più grave, dal folle indebitamento delle famiglie. È da questa disperazione che è nata l’onda della speranza cui Barack Obama ha dato un volto credibile compensando la sua scarsa esperienza con l’autorevolezza di Joe Biden, il suo vicepresidente.
Una voglia di cambiamento che non poteva essere interpretata da Hillary Clinton che rappresentava più una minestra riscaldata che non una speranza nuova. Quella speranza nata in questi mesi nella società americana, nelle sue università e nei suoi circoli finanziari dove si sta facendo strada un’autocritica di fondo su di un modello di capitalismo che ha mostrato tutte le sue crepe. Ed è sempre tra quei circoli che si sta prendendo atto che nel mondo di oggi c’è la crescita prepotente di altri soggetti politici, innanzitutto Cina, India e l’intero sud-est asiatico oltre che l’Europa dell’euro, che di fatto mette in soffitta l’egemonia americana e spalanca le porte a un vero multilateralismo. Sono queste le principali architravi del cambiamento sul quale un uomo nuovo come Obama dovrà procedere.
Detto questo, però, l’orgia laudativa dei nostri circoli politici e culturali è fastidiosa. Insomma, il troppo storpia. È vero che l’America è il paese in cui tutto può accadere. È il Paese in cui si elegge un uomo giovane e di colore alla Casa Bianca, ma è anche il Paese in cui sono stati ammazzati un presidente in carica (J.F. Kennedy) e un candidato forte alla presidenza (Robert Kennedy). È il Paese delle opportunità ma è anche il Paese in cui 50 milioni di cittadini sono privi di assistenza sanitaria. È il Paese dell’innovazione e della ricerca ma è anche il Paese di Wall Street, in cui si sono consumati scandali a ripetizione per collusioni criminali tra manager, agenzie di rating e banche d’affari e commerciali. È il Paese simbolo della ricchezza una in cui ci sono anche 40 milioni di poveri veri. È il Paese della meritocrazia ma è anche il Paese in cui decine di milioni di lavoratori hanno perso in pochi mesi il proprio futuro previdenziale grazie a un capitalismo di rapina. È il Paese che aiuta a sviluppare la democrazia nel mondo ma è anche il Paese che di volta in volta ha sostenuto Gheddafi, Saddam Hussein e perfino Bin Laden. É stato giustamente detto che l’America è il Paese delle libertà e delle opportunità ma è ancora priva di quel termine di solidarietà che è l’elemento pregnante della cultura politica europea. Anche noi siamo felici per l’elezione di Obama perché riteniamo che possa essere un grande presidente senza commettere gli errori di Kennedy (la guerra del Vietnam) superando, così, le contraddizioni del suo grande Paese in un mondo che sta cambiando tumultuosamente e che mai come ora chiede una «governance» saggia e condivisa. La felicità per la sua elezione è fatta per gli amici e per gli alleati. L’orgia laudativa è per le colonie e qualche volta per i camerieri.
Chi scrive è cresciuto in un partito nella cui politica campeggiava come valore fondante l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti d’America. Un popolo, quello americano, che aiutò l’Europa a liberarsi dalla feroce tirannia del nazifascismo e il mondo dal comunismo. Quella antica convinzione e quei sentimenti sono ancora oggi vivi e vitali in tutti noi. Una premessa necessaria, questa, per fare qualche considerazione fuori dal coro orgiastico di queste ore in casa nostra dove si sono rincorsi feste e festini e titoloni pressoché uguali che annunciano, «urbi et orbi», che il mondo è cambiato con la vittoria di Obama. Calma e gesso.
Non ci sfugge, naturalmente, che l’elezione di Barack Obama è avvenuta sull’onda del desiderio che condiziona sempre un popolo e una nazione quando sono in gravi difficoltà sociali ed economiche come l’America di oggi. Un cambiamento che certamente si arricchisce del fatto che per la prima volta l’inquilino della Casa Bianca è un uomo di colore. Una novità, però, che non è un fulmine a ciel sereno. Già negli otto anni di Bush i segretari di Stato, cioè i più diretti collaboratori del presidente e quelli che portano il volto dell’America nel mondo, sono stati due autorevoli personaggi di colore, Colin Powell e Condoleezza Rice a testimonianza di un avvenuto superamento degli antichi pregiudizi razziali. La vittoria di Obama lo ha completato. L’onda del cambiamento è cresciuta, poi, grazie agli errori di George W. Bush sul piano della politica estera (la guerra in Irak sorta sulla base di informazioni sbagliate circa la presenza di armi nucleari nelle mani di Saddam Hussein) e su quello economico. Su quest’ultimo terreno il disastro è stato ancora più grande perché ha spinto la società americana a uno «scialo, senza misura testimoniato dai due deficit gemelli, quello commerciale e quello dei conti pubblici, e quel che è più grave, dal folle indebitamento delle famiglie. È da questa disperazione che è nata l’onda della speranza cui Barack Obama ha dato un volto credibile compensando la sua scarsa esperienza con l’autorevolezza di Joe Biden, il suo vicepresidente.
Una voglia di cambiamento che non poteva essere interpretata da Hillary Clinton che rappresentava più una minestra riscaldata che non una speranza nuova. Quella speranza nata in questi mesi nella società americana, nelle sue università e nei suoi circoli finanziari dove si sta facendo strada un’autocritica di fondo su di un modello di capitalismo che ha mostrato tutte le sue crepe. Ed è sempre tra quei circoli che si sta prendendo atto che nel mondo di oggi c’è la crescita prepotente di altri soggetti politici, innanzitutto Cina, India e l’intero sud-est asiatico oltre che l’Europa dell’euro, che di fatto mette in soffitta l’egemonia americana e spalanca le porte a un vero multilateralismo. Sono queste le principali architravi del cambiamento sul quale un uomo nuovo come Obama dovrà procedere.
Detto questo, però, l’orgia laudativa dei nostri circoli politici e culturali è fastidiosa. Insomma, il troppo storpia. È vero che l’America è il paese in cui tutto può accadere. È il Paese in cui si elegge un uomo giovane e di colore alla Casa Bianca, ma è anche il Paese in cui sono stati ammazzati un presidente in carica (J.F. Kennedy) e un candidato forte alla presidenza (Robert Kennedy). È il Paese delle opportunità ma è anche il Paese in cui 50 milioni di cittadini sono privi di assistenza sanitaria. È il Paese dell’innovazione e della ricerca ma è anche il Paese di Wall Street, in cui si sono consumati scandali a ripetizione per collusioni criminali tra manager, agenzie di rating e banche d’affari e commerciali. È il Paese simbolo della ricchezza una in cui ci sono anche 40 milioni di poveri veri. È il Paese della meritocrazia ma è anche il Paese in cui decine di milioni di lavoratori hanno perso in pochi mesi il proprio futuro previdenziale grazie a un capitalismo di rapina. È il Paese che aiuta a sviluppare la democrazia nel mondo ma è anche il Paese che di volta in volta ha sostenuto Gheddafi, Saddam Hussein e perfino Bin Laden. É stato giustamente detto che l’America è il Paese delle libertà e delle opportunità ma è ancora priva di quel termine di solidarietà che è l’elemento pregnante della cultura politica europea. Anche noi siamo felici per l’elezione di Obama perché riteniamo che possa essere un grande presidente senza commettere gli errori di Kennedy (la guerra del Vietnam) superando, così, le contraddizioni del suo grande Paese in un mondo che sta cambiando tumultuosamente e che mai come ora chiede una «governance» saggia e condivisa. La felicità per la sua elezione è fatta per gli amici e per gli alleati. L’orgia laudativa è per le colonie e qualche volta per i camerieri.
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