“Sì, d’accordo, stiamo facendo. storia, ma non esageriamo, prego”, titola oggi “Il Foglio” il pezzo che segue, un pezzo di presentazione de “Il presidente ed il perdente”, l’insieme dei due discorsi dei due candidati che si sono contesi la sedia di uomo più potente del mondo.
Pubblichiamo due magnifici discorsi, quello del presidente eletto e quello del perdente. Il discorso del perdente, come nelle regole della buona retorica di sempre, è il più bello e il più emozionante. “La sconfitta è il blasone dell’anima bennata”, sta infatti scritto nel codice dell’Hidalgo. È retoricamente insuperabile, specie se pronunciato a caldo, nella notte dell’Arizona, quando chiudi in perdita la partita della tua vita contro un avversario più giovane e inesperto di te che sta festeggiando a Chicago, quel passaggio di John McCain nel quale è riconosciuta la tenace abilità di Barack Obama nel creare una politica che attrae ed ispira nuove forze alla missione di rinnovare e ritrovare la patria comune. Tanto più insuperabile in quanto pronunciato con la maschera malinconica e chapliniana di un energico vecchietto che ha combattuto secondo regole rivelatesi obsolete, mordendo la polvere a ogni round.
Ma non si può non riconoscere a Obama quel che è così eccezionalmente suo, sebbene il coro di cretinismo storico-epocale che circonda la sua elezione, particolarmente in Europa e in Italia, spinga invece a un sano e diffidente minimalismo. Obama, come abbiamo scritto in tempi non sospetti, ha di suo, e di vincente, che è un giovane uomo dalla pelle nera. Certo che è anche intelligente, e molto. Colto, nel senso di ben istruito. Fermo di carattere, come dimostra il suo profilo personale di marito, di padre e di organizzatore sociale. Dotato di un talento politico raro, che gli ha permesso di vincere al fotofinish la vera campagna elettorale presidenziale, che era quella contro la formidabile Hillary Clinton e la sua macchina da guerra, prima e più che non la corsa abbastanza predestinata contro il fragile e onesto e repubblicano McCain. La pelle nera è le sue due autobiografie, è il pathos della sua vita randagia regalata come elemento credibile di sogno e di speranza alle moltitudini meticce d’America, è la gioia di una ritrovata identità forte e iperamericana che alla fine riunisce tutti oltre le divisioni politiche e civili tanto dure da sopportare nella storia di un paese in cui i neri ancora quaranta, quarantacinque anni fa non riuscivano a votare in molti stati del sud (e neanche ad entrare in un ristorante per bianchi o in una classe per bianchi o in un cesso per soli bianchi).
Solo che, guarda tu l’astuzia della ragion politica, guarda tu l’ironia della storia, il capolavoro bianco e machiavellico del presidente nero è stato quello di presentare la sua esperienza culturale e razziale per vincere come uomo e come simbolo politico completamente nuovo la battaglia con Hillary, donna bianca, donna di potere, dinastia del già visto. E di nascondere poi ogni traccia di negritudine, a favore di un perfetto curriculum di white liberal guy, di giovanotto benestante e affermato della east coast, fiore della Columbia University e della Harvard Law School. Chi abbia potuto osservare da vicino la campagna elettorale americana, dopo le convention, nei due mesi che contano per la conoscenza e la valutazione di massa dei candidati, notava inevitabilmente la professionalizzazione generica, razzialmente del tutto neutra, di Barack Obama e del suo staff. Invece, a risultato ottenuto, le cinquanta prime pagine dei quotidiani americani passate in rassegna nel sito di Repubblica, per non parlare dei nostri chiacchiericci mediatico-epocali, hanno denudato il vero significato dell`elezione: il presidente stavolta ha la pelle nera.
Una cosa di valore storico Obama l’ha fatta. Ha saputo usare l’ideologia nascondendola a tempo nel momento della flessibilità; ha saputo far fruttare i grandi sensi di colpa che accompagnano gli Stati Uniti dagli anni della “creazione”, da quel fine Settecento costituzionalistico in cui i Padri fondatori decisero di accantonare la questione della schiavitù e della razza per realizzare l’Unione, ma sacrificarono così al realismo il principio egualitario di diritto naturale che li aveva uniti. Fecero un paese di individui creati da Dio eguali nei loro diritti, ma per farlo dovettero rinviare l’abolizione della schiavitù a una sanguinosa guerra civile e poi, dopo un secolo, l’abolizione della segregazione a una durissima e lunga battaglia dei diritti civili. In questo senso, nessuno come Obama, come il suo staff, la sua campagna felicemente guidata da un triste e geniale intellettuale ebreo, ha saputo sfruttare il momento, "seize the time" (come dicevano i Black Panther), per assestare il colpo della vittoria. Poi però c’è tutta la questione delle cosiddette issues. Che farà questo presidente per rassicurare un mondo nasty, cattivo, oltre i confini del suo sorriso e il ritmo energico dei suoi passi di danza? Appello ai retori ingordi: sì, stiamo facendo storia, ma non esageriamo, prego.
Pubblichiamo due magnifici discorsi, quello del presidente eletto e quello del perdente. Il discorso del perdente, come nelle regole della buona retorica di sempre, è il più bello e il più emozionante. “La sconfitta è il blasone dell’anima bennata”, sta infatti scritto nel codice dell’Hidalgo. È retoricamente insuperabile, specie se pronunciato a caldo, nella notte dell’Arizona, quando chiudi in perdita la partita della tua vita contro un avversario più giovane e inesperto di te che sta festeggiando a Chicago, quel passaggio di John McCain nel quale è riconosciuta la tenace abilità di Barack Obama nel creare una politica che attrae ed ispira nuove forze alla missione di rinnovare e ritrovare la patria comune. Tanto più insuperabile in quanto pronunciato con la maschera malinconica e chapliniana di un energico vecchietto che ha combattuto secondo regole rivelatesi obsolete, mordendo la polvere a ogni round.
Ma non si può non riconoscere a Obama quel che è così eccezionalmente suo, sebbene il coro di cretinismo storico-epocale che circonda la sua elezione, particolarmente in Europa e in Italia, spinga invece a un sano e diffidente minimalismo. Obama, come abbiamo scritto in tempi non sospetti, ha di suo, e di vincente, che è un giovane uomo dalla pelle nera. Certo che è anche intelligente, e molto. Colto, nel senso di ben istruito. Fermo di carattere, come dimostra il suo profilo personale di marito, di padre e di organizzatore sociale. Dotato di un talento politico raro, che gli ha permesso di vincere al fotofinish la vera campagna elettorale presidenziale, che era quella contro la formidabile Hillary Clinton e la sua macchina da guerra, prima e più che non la corsa abbastanza predestinata contro il fragile e onesto e repubblicano McCain. La pelle nera è le sue due autobiografie, è il pathos della sua vita randagia regalata come elemento credibile di sogno e di speranza alle moltitudini meticce d’America, è la gioia di una ritrovata identità forte e iperamericana che alla fine riunisce tutti oltre le divisioni politiche e civili tanto dure da sopportare nella storia di un paese in cui i neri ancora quaranta, quarantacinque anni fa non riuscivano a votare in molti stati del sud (e neanche ad entrare in un ristorante per bianchi o in una classe per bianchi o in un cesso per soli bianchi).
Solo che, guarda tu l’astuzia della ragion politica, guarda tu l’ironia della storia, il capolavoro bianco e machiavellico del presidente nero è stato quello di presentare la sua esperienza culturale e razziale per vincere come uomo e come simbolo politico completamente nuovo la battaglia con Hillary, donna bianca, donna di potere, dinastia del già visto. E di nascondere poi ogni traccia di negritudine, a favore di un perfetto curriculum di white liberal guy, di giovanotto benestante e affermato della east coast, fiore della Columbia University e della Harvard Law School. Chi abbia potuto osservare da vicino la campagna elettorale americana, dopo le convention, nei due mesi che contano per la conoscenza e la valutazione di massa dei candidati, notava inevitabilmente la professionalizzazione generica, razzialmente del tutto neutra, di Barack Obama e del suo staff. Invece, a risultato ottenuto, le cinquanta prime pagine dei quotidiani americani passate in rassegna nel sito di Repubblica, per non parlare dei nostri chiacchiericci mediatico-epocali, hanno denudato il vero significato dell`elezione: il presidente stavolta ha la pelle nera.
Una cosa di valore storico Obama l’ha fatta. Ha saputo usare l’ideologia nascondendola a tempo nel momento della flessibilità; ha saputo far fruttare i grandi sensi di colpa che accompagnano gli Stati Uniti dagli anni della “creazione”, da quel fine Settecento costituzionalistico in cui i Padri fondatori decisero di accantonare la questione della schiavitù e della razza per realizzare l’Unione, ma sacrificarono così al realismo il principio egualitario di diritto naturale che li aveva uniti. Fecero un paese di individui creati da Dio eguali nei loro diritti, ma per farlo dovettero rinviare l’abolizione della schiavitù a una sanguinosa guerra civile e poi, dopo un secolo, l’abolizione della segregazione a una durissima e lunga battaglia dei diritti civili. In questo senso, nessuno come Obama, come il suo staff, la sua campagna felicemente guidata da un triste e geniale intellettuale ebreo, ha saputo sfruttare il momento, "seize the time" (come dicevano i Black Panther), per assestare il colpo della vittoria. Poi però c’è tutta la questione delle cosiddette issues. Che farà questo presidente per rassicurare un mondo nasty, cattivo, oltre i confini del suo sorriso e il ritmo energico dei suoi passi di danza? Appello ai retori ingordi: sì, stiamo facendo storia, ma non esageriamo, prego.
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