martedì 13 maggio 2008

Gappismo sfascista

Che siamo all’alba di una nuova stagione nel Paese si fa di giorno in giorno sempre più evidente. Maroni ha dichiarato guerra all’immigrazione clandestina ed alla sua illegalità che sfocia in criminalità troppo spesso coperta da una ipocrisia travestita da solidarietà, una solidarietà finta che nasconde troppo spesso interessi sporchi, siano essi economici, sociali o politici; Brunetta ha dichiarato guerra all’assenteismo ed alla scarsa produttività nel pubblico impiego, annunciando una linea dura fino al licenziamento dei parassiti, dei vermi sociali che si annidano e si ingrassano nella pubblica amministrazione. Ma c’è una terza guerra dichiarata, questa volta a sinistra, di cui qui darò conto: quella contro il gappismo sfascista di una frangia intellettuale che non sa prendere coscienza di aver fatto il suo tempo. Totalitarismo come il fascismo ed il comunismo, lo sfascismo intellettuale di sinistra, del “tanto peggio tanto meglio”, è l’ultimo retaggio del passato secolo di cui ancora non si è riusciti a liberare il Paese.
Scrive Stefano Menichini oggi su “Europa”: «Nel caso che qualcuno, che allora tanto si divertì, pensasse di fare il bis del 2001-2002, è bene che il Partito democratico abbia ben chiari i termini della questione che si è aperta in questi giorni con Marco Travaglio, con Furio Colombo, con l’Italia dei valori di Di Pietro, con Beppe Grillo, con quelle frange della sinistra televisiva che già sognano (in alternativa o in sequenza) girotondi elettronici e atti di martirio.
Qui, alla fine, non ci sono in ballo né la lotta alla mafia (che prosegue con buoni successi e alterni governi), né il buon nome di politici e cariche istituzionali (perfettamente in grado di difendersi e con tutti gli strumenti per farlo), né la libertà di stampa e di critica, che con buona pace di tutti non è mai venuta meno in Italia, né quando piangeva Berlusconi né quando piangevano le vittime dei suoi editti: è una libertà limitata dai suoi intrecci col potere politico, finanziario ed economico né più né meno che in tutte le democrazie occidentali (chiedere al Wall street journal), e chi non ci crede si accomodi a Mosca o a Caracas per apprezzare cosa sia la vera censura.
Qui c’è in ballo – il Pd deve saperlo, e sembra davvero averlo capito – la pretesa di una fazione intellettuale e giornalistica di condizionare e orientale l’agenda dell’opposizione ai governi della destra, ricattando apertamente il Pd perfino sui suoi stessi giornali, come capita alla povera Unità.
Non è una novità, se non per il fatto che ora c’è anche un partito apparentemente alleato al Pd, l’Italia dei valori, determinato a sfruttare questa situazione.»
Travaglio, Beppe Grillo e compagnia cantante avrebbero, dunque, come target non Berlusconi, come fanno credere con le loro discutibili performance agli ingenui e beoni frequentatori delle “bettole” dove si ritrova una certa sinistra che si sente sempre più orfana, o meglio incapace di reclamare addirittura d’essere “progenie d’un dio minore”, a smaltire sbornie di negazionismo istituzionale, questo sì antipolitica militante; ma il nemico da colpire sarebbe il Pd e Veltroni. E qualche riga più sotto Menichini continua: « L’offensiva politica contro il Pd di Veltroni si maschera dietro l’irresponsabilità e la pretesa neutralità della denuncia giornalistica. Puro pretesto.
Tutti gli attori di questa vicenda fanno politica a pieno titolo, più o meno appoggiati a Di Pietro o ai palchi di Beppe Grillo, qualcuno come Furio Colombo troppo generosamente riconfermato (dopo corteggiamento dell’interessato) dal Pd.
Il centrosinistra è dichiaratamente un loro avversario. Riceverne critiche diventa «una medaglia». Dicono di opporsi all’impossibile dialogo sulle riforme istituzionali con una destra contaminata da mafiosità, malaffare e conflitti di interessi. In realtà, come dimostra l’enfasi con la quale Berlusconi ha sempre premiato questo tipo di opposizione, nei suoi discorsi e nelle sue performances pubbliche, loro rappresentano la sua polizza d’assicurazione.»
La denuncia della vacuità di contenuti, dell’astrattezza, dell’estraneità alla quotidianità politica, alla realtà attuale che muove i primi passi senza rimpianti verso una stagione nuova, che caratterizza i Travaglio, i Grillo e gli altri compagni di merende, è netta. Prosegue Menichini: «A nessuno di questi tribuni toccherà mai il compito e la responsabilità di argomentare, davanti al popolo italiano, le ragioni per opporsi, per fare esempi: al taglio dell’Ici; alla stretta sull’immigrazione criminogena; alla riforma dei contratti; alla lotta contro il parassitismo nella pubblica amministrazione; alla riduzione delle tasse sul lavoro. Tutte cose che non sappiamo se la destra farà davvero, dopo averle promesse. Ma sulle quali certo non si potrà dibattere nel paese chiamando in causa le amicizie del presidente Schifani.»
E dopo aver dato una lezione di politica americana a Furio Colombo – che sulla questione “fa pura disinformazione ai danni di un pubblico di lettori mal servito da anni” – Menichini conclude: «Sappiamo che a questo estremismo corrisponde un comune sentire nell’opinione pubblica di sinistra, alimentato per lustri. Proprio per questo, per uscire da questa tenaglia, è una battaglia politica che va aperta e dichiarata, come si è finalmente cominciato a fare.»
Oggi Repubblica.it pubblica un’analisi di Giuseppe d’Avanzo intitolata “La lezione del caso Schifani”, che a mio avviso bisognerebbe fosse da tutti ricuperata e conservata se non altro perché è un lucido pezzo sul giornalismo d'informazione, sulle "agenzie del risentimento", sull'antipolitica. Una denuncia di come si possa manipolare o influenzare un lettore (o un ascoltatore) che ingenuamente da fiducia alla patente di scomoda “bocca della verità” costruita da media televisivi ed editori della carta stampata attorno ad un Travaglio, che dopo il primo anatema contro Luttazzi è diventato una macchina da soldi. Scrive D’Avanzo: «Marco Travaglio sostiene, per dirne una, che fin "dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate" e protesta: "I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c'era di falso in quello che ho detto". Gli appare sufficiente quel rapporto lontano nel tempo - non si sa quanto consapevole (il legame tra i due risale al 1979; soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia) - per persuadere un ascoltatore innocente che il presidente del Senato sia in odore di mafia. Che il nostro Paese, anche nelle sue istituzioni più prestigiose, sia destinato a essere governato (sia governato) da uomini collusi con Cosa Nostra. Se si ricordano queste circostanze (emergono da atti giudiziari) è per dimostrare quanto possono essere sfuggenti e sdrucciolevoli "i fatti" quando sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e un autonomo lavoro di ricerca. È un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce "giornalismo d'informazione".»
Travaglio, insomma, sfrutta l’onda della sua casuale e fortunata notorietà. Nient’altro che il ripetere un cliché che gli produce un reddito in migliaia di euro a tre cifre. D’Avanzo mette i puntini sulle “i” riguardo alla questione sollevata da Travaglio mostrandone l’inconsistenza da un punto di vista di correttezza giornalista: «Le lontane "amicizie pericolose" di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell'anno furono riprese dall'Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in Voglia di mafia (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in I complici (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi). Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l'agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?). Non se n'è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità. Siamo fermi al punto di partenza. Quasi trent'anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.»
E quindi, aiutandosi con citazioni di filosofi come Bernard Williams, che spiegano che la verità offre due differenti virtù: la sincerità e la precisione, D’Avanzo precisa la figura di Travaglio, su cui i suoi mille e più fan forse dovrebbero cominciare a riflettere: « Si può allora dire che Travaglio è sincero con quel dice e insincero con chi lo ascolta. Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei "fatti" che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. È, nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell'asettico, neutrale watchdog - di "cane da guardia" dei poteri ("Io racconto solo fatti") - per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria anche quando consapevolmente presenta come "fatti" ciò che "fatti", nella loro ambiguità, non possono ragionevolmente essere considerati (a meno di non considerare "fatti" quel che potrebbero accusare più di d'un malcapitato).»
Dunque Travaglio, come Santoro, non fa informazione, fa politica: usa i “fatti” per sostenere politicamente delle tesi. Non fa “verità”. Come dice D’Avanzo: “Confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia”. Una operazione ambigua e nemica alla fin fine dello stesso lettore (o ascoltatore) a cui si chiede connivenza. Un metodo esiziale per la credibilità del giornalismo, ma anche e soprattutto per la democrazia. Denuncia D’Avanzo: «L'operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro ("Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso..."). È un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde. È un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all'avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un'abusiva occupazione del potere e un'opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale.»
Per non fare un cattivo uso dell’articolo di D’Avanzo, il giornalista sul caso Schifani conclude che “non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti”, Travaglio, Schifani (che “ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato”), l’opposizione (che “ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa”), Rai (“incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità”): «In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un'informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni.»

Nessun commento:

Archivio blog