Sono consapevole che continuare a dare spazio nel blog alla “Travaglíade” in corso contribuisce ad accreditare Travaglio come una sorta di “faro mediatico”. Personalmente l’attività giornalistica di Marco Travaglio non mi ha mai entusiasmato proprio per il metodo e quella sorta di solipsismo che traspare dalla sua scrittura. Ma non mi meraviglia più di tanto il fatto che la sua attività pubblicistica attiri un numero consistente di fan, tanto da farlo un personaggio mediatico utile per l’audience o per il business editoriale. Ormai si vive in una sorta di bar universale, ed i libri e gli articoli di Travaglio per questo mondo, come gli strilli di Grillo sul palco, hanno il pregio di alimentare spunti e motivi utili appunto per le chiacchiere da bar di cui ormai è infarcito il dibattito politico, dove le analisi trovano il tempo che trovano ma il gossip spadroneggia. Aggiungo che non è a caso che Travaglio sia “esploso” nuovamente, in questo oggi del post-sinistra. L’uscita di scena dei tanti Bertinotti e soci hanno lasciato uno spazio vuoto nell’immaginario collettivo, un bocconcino ghiotto che, almeno mediaticamente, qualcuno ha cercato subito di far suo, leggi Santoro, Travaglio, addirittura in parte gli stessi autori di Crozza, per proporsi come i “ribelli”, i campioni di un movimento inesistente di opposizione al conformismo di idee e pensiero sui cui si fonderebbe il berlusconismo ritenuto imperante e sempre più dilagante nella società. Non per idealismo, certo che no: lo si è dimostrato per Grillo nelle scorse settimane, vale per gli altri, perché si deve pur mangiare ogni giorno.
Ritorno, dunque, sulla vicenda che tanto tiene banco in questi giorni perché oggi Repubblica.it pubblica la replica all’articolo di D’Avanzo, di cui ho detto ieri, e la controreplica dello stesso D’Avanzo. Comincio con la prima, stralciando i passi significativi.
Già l’inizio: “Ringrazio D'Avanzo per la lezione di giornalismo che mi ha impartito su Repubblica di ieri. Si impara sempre qualcosa, nella vita”, non è buon inizio, non umiltà o ironia, ma pura e semplice supponenza. Perché poi anche continua: “Ma, per quanto mi riguarda, temo di essere ormai irrecuperabile, avendo lavorato per cattivi maestri come Montanelli, Biagi, Rinaldi, Furio Colombo e altri. I quali, evidentemente, non mi ritenevano un pubblico mentitore, un truccatore di carte che «bluffa», «avvelena il metabolismo sociale» e «indebolisce le istituzioni», un manipolatore di lettori «inconsapevoli», quale invece mi ritiene D'Avanzo”. Va chiosato che buon principio sostiene che il maestro non è responsabile di ciò che farà l’allievo dopo il suo insegnamento. Comunque, prima di proseguire, inviterei il mio lettore ad andare a rivedersi il frammento della trasmissione di Fazio riguardante il dialogo con Travaglio, un invito così, per garantirsi d’aver una conoscenza certa di ciò di cui si parla nel seguito.
La questione del contendere con la sua ottica Travaglio così la presenta: “Mi sono limitato a rammentare un fatto vero a proposito di uno dei tanti politici citati nel libro [«Se li conosci li eviti», scritto con Peter Gomez]: e cioè che, raccontando vita e opere di Renato Schifani al momento della sua elezione a presidente del Senato, nessun quotidiano (tranne l'Unità e, paradossalmente, Il Giornale di Berlusconi) ha ricordato i suoi rapporti con persone poi condannate per mafia, come Nino Mandalà e Benny D'Agostino (ho detto testualmente: «Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. rapporti con signori che sono poi stati condannati per mafia»; la frase «anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso», falsamente attribuitami da D'Avanzo, non l'ho mai detta né pensata). Quei rapporti, contrariamente a quanto scrive D'Avanzo, sono tutt'altro che «lontani nel tempo», visto che ancora a metà degli anni 90 Schifani fu ingaggiato, come consulente per l'urbanistica e il piano regolatore, dal Comune di Villabate retto da uomini legati al boss Mandalà e di lì a poco sciolto due volte per mafia. Rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale, visto che la mafia non dimentica, ha la memoria lunghissima e spesso usa le sue amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso. In qualunque altro paese, casomai capitasse che il titolare di certi rapporti ascenda alla seconda carica dello Stato, tutti i giornali e le tv gli rammenterebbero quei rapporti: per questo, negli altri paesi, il titolare di certi rapporti difficilmente ascende ai vertici dello Stato”.
Mi si perdoni una chiosa con un esempio personale. Nella mia vita lavorativa ho avuto per colleghi due e poi tre – se non sbaglio il conto – per noi insospettabili persone, ad un certo punto svaniti nel nulla o – di alcuni s’è saputo – espatriati in Francia perché erano brigatisti rossi ricercati. Se la logica di Travaglio funzionasse, tutti noi, gli altri, potremmo essere nel nostro piccolo tacciati di “rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale”. E di quei tumultuosi anni Settanta ho anche il ricordo ben fisso nella mente di un altro mio collega che si fece a San Vittore alcuni mesi solo perché il suo numero di telefono era nell’agenda di una brigatista, che aveva conosciuto e sempre creduto persona normalissima e innocua. Se già per un inquirente l’andarci piano dovrebbe essere suggerito dal buon senso, a maggior ragione dovrebbe essere pratica di un giornalista, anche indipendente.
E così spiega Travaglio il suo accanimento “terapeutico”: “Secondo lui [D’Avanzo] i giornali, all'elezione di Schifani a presidente del Senato, non hanno più parlato di quei rapporti perché nel frattempo non s'era scoperto nulla di nuovo. Strano: non c'era nulla di nuovo neppure sul riporto di Schifani, eppure tutti i giornali l'hanno doviziosamente rammentato. I lettori giudicheranno se sia più importante ricordare il riporto, oppure il rapporto con D'Agostino e Mandalà (che poi, un po' contraddittoriamente, lo stesso D'Avanzo definisce «sconsiderato»)”. E la sua convinzione d’impunità a fronte della querela di Schifani la ricava da questo: “Oltretutto c'è già un precedente specifico: quando, per primo, Marco Lillo rivelò queste cose sull'Espresso nel 2002, Schifani lo denunciò. Ma la denuncia venne archiviata nel 2007 perché – scrive il giudice – «l'articolo si presenta sostanzialmente veritiero»”.
La risposta di D’Avanzo andrebbe letta per intero, ed invito il lettore ad andare sul sito di Repubblica.it a leggerla, come pure i pochi capoversi che mancano qui della lettera di Travaglio. Cercherò di stralciare i passi più importanti, decisivi.
Così l’incipit: “Non so che cosa davvero pensassero dell'allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il «vero» e il «falso»: «qualifiche fluide e manipolabili» come insegna un altro maestro, Franco Cordero. Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire”.
E D’Avanzo si spiega e ci spiega: “Che cos'è un «fatto», dunque? Un «fatto» ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un «fatto» ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, «piantato nel mezzo delle libere istituzioni», le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio («Io racconto solo fatti») si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: «Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia» indica una traccia di lavoro e non una conclusione. Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo «la metà degli Anni Novanta», dunque) e soltanto «di lì a poco» (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità”.
D’Avanzo, dunque, mette il dito nella piaga: “È l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del «vero» e del «falso». Afferra un «fatto» controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: «Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...». Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe”.
Ma D’Avanzo fa un esempio eloquentissimo del “metodo Travaglio” e di quelle che chiama “agenzie del risentimento”: “8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei «cuscini». Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia. Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio”.
Ma guarda un po’. D’Avanzo conclude: “Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo? Nessuno, che sia in buona fede, può farlo”.
Eppure prosegue D’Avanzo: “un'«agenzia del risentimento» potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che «la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso». Basta dare per scontato il «fatto», che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca”.
A te, lettore mio le conclusioni.
Ritorno, dunque, sulla vicenda che tanto tiene banco in questi giorni perché oggi Repubblica.it pubblica la replica all’articolo di D’Avanzo, di cui ho detto ieri, e la controreplica dello stesso D’Avanzo. Comincio con la prima, stralciando i passi significativi.
Già l’inizio: “Ringrazio D'Avanzo per la lezione di giornalismo che mi ha impartito su Repubblica di ieri. Si impara sempre qualcosa, nella vita”, non è buon inizio, non umiltà o ironia, ma pura e semplice supponenza. Perché poi anche continua: “Ma, per quanto mi riguarda, temo di essere ormai irrecuperabile, avendo lavorato per cattivi maestri come Montanelli, Biagi, Rinaldi, Furio Colombo e altri. I quali, evidentemente, non mi ritenevano un pubblico mentitore, un truccatore di carte che «bluffa», «avvelena il metabolismo sociale» e «indebolisce le istituzioni», un manipolatore di lettori «inconsapevoli», quale invece mi ritiene D'Avanzo”. Va chiosato che buon principio sostiene che il maestro non è responsabile di ciò che farà l’allievo dopo il suo insegnamento. Comunque, prima di proseguire, inviterei il mio lettore ad andare a rivedersi il frammento della trasmissione di Fazio riguardante il dialogo con Travaglio, un invito così, per garantirsi d’aver una conoscenza certa di ciò di cui si parla nel seguito.
La questione del contendere con la sua ottica Travaglio così la presenta: “Mi sono limitato a rammentare un fatto vero a proposito di uno dei tanti politici citati nel libro [«Se li conosci li eviti», scritto con Peter Gomez]: e cioè che, raccontando vita e opere di Renato Schifani al momento della sua elezione a presidente del Senato, nessun quotidiano (tranne l'Unità e, paradossalmente, Il Giornale di Berlusconi) ha ricordato i suoi rapporti con persone poi condannate per mafia, come Nino Mandalà e Benny D'Agostino (ho detto testualmente: «Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. rapporti con signori che sono poi stati condannati per mafia»; la frase «anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso», falsamente attribuitami da D'Avanzo, non l'ho mai detta né pensata). Quei rapporti, contrariamente a quanto scrive D'Avanzo, sono tutt'altro che «lontani nel tempo», visto che ancora a metà degli anni 90 Schifani fu ingaggiato, come consulente per l'urbanistica e il piano regolatore, dal Comune di Villabate retto da uomini legati al boss Mandalà e di lì a poco sciolto due volte per mafia. Rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale, visto che la mafia non dimentica, ha la memoria lunghissima e spesso usa le sue amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso. In qualunque altro paese, casomai capitasse che il titolare di certi rapporti ascenda alla seconda carica dello Stato, tutti i giornali e le tv gli rammenterebbero quei rapporti: per questo, negli altri paesi, il titolare di certi rapporti difficilmente ascende ai vertici dello Stato”.
Mi si perdoni una chiosa con un esempio personale. Nella mia vita lavorativa ho avuto per colleghi due e poi tre – se non sbaglio il conto – per noi insospettabili persone, ad un certo punto svaniti nel nulla o – di alcuni s’è saputo – espatriati in Francia perché erano brigatisti rossi ricercati. Se la logica di Travaglio funzionasse, tutti noi, gli altri, potremmo essere nel nostro piccolo tacciati di “rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale”. E di quei tumultuosi anni Settanta ho anche il ricordo ben fisso nella mente di un altro mio collega che si fece a San Vittore alcuni mesi solo perché il suo numero di telefono era nell’agenda di una brigatista, che aveva conosciuto e sempre creduto persona normalissima e innocua. Se già per un inquirente l’andarci piano dovrebbe essere suggerito dal buon senso, a maggior ragione dovrebbe essere pratica di un giornalista, anche indipendente.
E così spiega Travaglio il suo accanimento “terapeutico”: “Secondo lui [D’Avanzo] i giornali, all'elezione di Schifani a presidente del Senato, non hanno più parlato di quei rapporti perché nel frattempo non s'era scoperto nulla di nuovo. Strano: non c'era nulla di nuovo neppure sul riporto di Schifani, eppure tutti i giornali l'hanno doviziosamente rammentato. I lettori giudicheranno se sia più importante ricordare il riporto, oppure il rapporto con D'Agostino e Mandalà (che poi, un po' contraddittoriamente, lo stesso D'Avanzo definisce «sconsiderato»)”. E la sua convinzione d’impunità a fronte della querela di Schifani la ricava da questo: “Oltretutto c'è già un precedente specifico: quando, per primo, Marco Lillo rivelò queste cose sull'Espresso nel 2002, Schifani lo denunciò. Ma la denuncia venne archiviata nel 2007 perché – scrive il giudice – «l'articolo si presenta sostanzialmente veritiero»”.
La risposta di D’Avanzo andrebbe letta per intero, ed invito il lettore ad andare sul sito di Repubblica.it a leggerla, come pure i pochi capoversi che mancano qui della lettera di Travaglio. Cercherò di stralciare i passi più importanti, decisivi.
Così l’incipit: “Non so che cosa davvero pensassero dell'allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il «vero» e il «falso»: «qualifiche fluide e manipolabili» come insegna un altro maestro, Franco Cordero. Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire”.
E D’Avanzo si spiega e ci spiega: “Che cos'è un «fatto», dunque? Un «fatto» ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un «fatto» ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, «piantato nel mezzo delle libere istituzioni», le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio («Io racconto solo fatti») si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: «Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia» indica una traccia di lavoro e non una conclusione. Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo «la metà degli Anni Novanta», dunque) e soltanto «di lì a poco» (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità”.
D’Avanzo, dunque, mette il dito nella piaga: “È l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del «vero» e del «falso». Afferra un «fatto» controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: «Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...». Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe”.
Ma D’Avanzo fa un esempio eloquentissimo del “metodo Travaglio” e di quelle che chiama “agenzie del risentimento”: “8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei «cuscini». Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia. Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio”.
Ma guarda un po’. D’Avanzo conclude: “Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo? Nessuno, che sia in buona fede, può farlo”.
Eppure prosegue D’Avanzo: “un'«agenzia del risentimento» potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che «la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso». Basta dare per scontato il «fatto», che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca”.
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