domenica 11 maggio 2008

La nazionalsinistra

L’occhio dei commentatori e dei bloggers in questi giorni è stato particolarmente attento all’evolversi della parodia, com’è stata definita dal segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto, del governo-ombra, del governo-bricolage di Veltroni. Iniziativa strettamente mediatica, va riconosciuto, o di marketing pubblicitario, per mantenere viva ancora l’attenzione dei propri supporter innanzitutto, e poi quella di qualche “curioso” tra la “gente della strada”, dilatando il limite dell’inevitabile oblio del pathos elettorale. Questo ha comportato una minor coscienza sull’opera di fondazione del Pd, portata avanti subliminalmente dai media della carta stampata e delle nuove tecnologie che sono espressione di quegli interessi forti che hanno scommesso con alterno successo sui cavalli di razza post-comunisti. Fondazione ideologica soprattutto.
Nel vuoto lasciato dai survivor del dramma post-prodiano, intenti soprattutto ad assegnarsi parti nel nuovo gioco di ruolo veltroniano, l’apparato mediatico lobbista si è messo all’opera per non buttare a mare l’investimento fatto, e, almeno, minimizzare la prospettiva di un mancato profitto. Scrive oggi Eugenio Scalfari su Repubblica.it: «Veltroni ha puntato sulla voglia di cambiamento della società italiana, Berlusconi invece sulla insicurezza e la voglia di protezione nonché su un sussulto identitario, localistico e tradizionale. La maggioranza degli elettori ha condiviso. Si deve per questo abbandonare la visione d'una società più moderna e dinamica? Credo di no. Bisognerà riproporla in modi più efficaci e meno dispersivi, concentrando l'attenzione su punti e provvedimenti concreti. Questo è mancato e questo va fatto a cominciare da subito».
Berlusconi incarna il modello federalista romano-centrifugo, basato sull’armonia delle particolarità locali e sulla valorizzazione delle tradizioni dove l’identità si regge su un idem sentire di sviluppo economico e di ruolo nel mondo, sul “made in Italy” per semplificare, piuttosto che sull’ideologia unitaria nazionalista che ha fatto il suo tempo e ha mostrato la sua perniciosità concretata, nei sessant’anni di repubblica, da un’inefficacia sperimentata nel mantenere il Paese globalmente sui binari del progresso e dello sviluppo economico. Un modello che va incontro alle esigenze d’un tessuto economico ed industriale del Paese fondato sulle piccole e medie imprese e su imprese familiari, di alto valore di innovazione e progettualità e di grande patrimonio di idee. Un modello che non si sposa con gli appetiti degli interessi forti, che a riprova hanno sempre ostacolato l’evolversi del scendere in campo del Cavaliere.
Gli interessi forti del capitalismo italiano hanno bisogno di una coesione statale romano-centrica, di uno stato monolito, perché la loro attività, metaforicamente, semplicemente non può essere federata, per dimensione ma soprattutto per mancanza di “flessibilità”, per un’incapacità genetica ad adattarsi o adeguarsi alle mutate condizioni economiche mondiali. Bisognosa oltretutto com’è d’uno stato che faccia da volano nei momenti difficili, e su ciò ha sempre contato con successo nel passato, mai mostrando di poterne fare a meno. La “voglia di cambiamento della società italiana” che Scalfari invoca è semplicemente il tentativo degli interessi forti di governare la globalizzazione per conservarsi immutata e conservare integro il proprio potenziale di profitto. Si punta su Veltroni perché è l’ultimo erede di un movimento che viene da lontano e che da sempre era e che continua “utilmente” ad essere acriticamente “internazionalista”.
Uno degli aspetti del “cambiamento della società italiana”, di cui si propaganda una voglia tra gli italiani inesistente – come ha dimostrato ampiamente il recente voto, – è il non rigido controllo dell’immigrazione ovvero un alto livello di tolleranza utile a modificare l’assetto culturale del Paese. Non è a caso che molti giornali abbiano cominciato una campagna mediatica di avversione a decisioni non ancora prese da parte del governo Berlusconi circa un pesante giro di vite contro l’immigrazione clandestina e la criminalità conseguente. Si rilevano nella carta stampata preventive prese di posizione in favore di proteste future del governo romeno, si registra una sorta di europeismo fondamentalista mai prima notato, si difendono preventivamente le prerogative del Capo dello Stato sulla presentazione di decreti legge (il modo più rapido per introdurre drastiche modifiche nella legislazione). Certo sono solo parole. L’impressione però che resta, è che si voglia cominciare una campagna mediatica come quella dell’ultimo referendum costituzionale, dimostratasi alla fine vincente, per fermare allora la modificazione in senso federalista della Costituzione: mettere freni insomma alla risoluzione della questione sicurezza per “stancare” l’avversario in modo da far passare in secondo piano l’impegno sull’introduzione di misure federaliste, a cominciare dal federalismo fiscale.
Gli “azionisti” di riferimento si appresterebbero, in definitiva, a dettare la linea del partito non-partito, del Pd ancora privo di una identità specifica o soltanto sommariamente abbozzata. Una linea che potremmo chiamare di nazional-sinistra, che da una parte accentua i richiami nazionali classici – incorporati durante la “grande corsa” al voto del centrodestra – ultimamente introdotti nell’iconografia e nei riferimenti fondanti, e che dall’altra rafforza il dato di fatto, rimarcato dal mancato sfondamento al centro, dell’imprescindibilità del dna diessino, necessario per mantenere il legame con quel terzo di elettorato che crede ancora nei valori della sinistra riformista. Un partito, dunque, quanto più coeso su un’immagine di sinistra nazionale a difesa del centralismo statuale contro ogni tentativo di frammentazione federale e di delocalizzazione regionale delle competenze amministrative dello Stato.

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