martedì 13 maggio 2008

Nomadi: il caso di Ponticelli ha precedenti

Riprendo il leitmotiv – già ricordato nel precedente post – di Vincenzo Esposito, esponente dell'Opera nomadi: “In tutta la giurisprudenza non esiste un solo caso di rom che abbia rubato bambini”. Leitmotiv perché l’asserzione la si ritrova ripetuta sempre quando si cerca di bollare come del tutto ingiustificato il sentimento popolare di avversione contro i nomadi. Non ci sarà nella letteratura giurisprudenziale, ma la cronaca parlamentare e la cronaca giornalistica ci dicono che il caso di Ponticelli ha dei precedenti.
Comincio col riportare dagli allegati della seduta della Camera dei Deputati n. 582 dell'8/2/2005, l’interrogazione a risposta immediata (n. 3-04186), presentata al Ministro della Giustizia dagli on. Cè, Guido Giuseppe Rossi, Dario Galli, Luciano Dussin, Ballaman, Bianchi Clerici, Bricolo, Caparini, Didonè, Guido Dussin, Ercole, Fontanini, Gibelli, Giancarlo Giorgetti, Lussana, Francesca Martini, Pagliarini, Parolo, Polledri, Rizzi, Rodeghiero, Sergio Rossi, Stucchi E Vascon:
«Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:
durante il recente episodio di cronaca accaduto in pieno giorno nel centro storico di Lecco, alcune nomadi avrebbero tentato di rapire una bambina di sette mesi dopo aver circondato la madre;
le nomadi, tempestivamente individuate grazie anche alla collaborazione dei cittadini, sono state immediatamente catturate da parte delle forze dell'ordine e consegnate alla magistratura, che ha provveduto a processarle con rito direttissimo;
il giudice, anziché ritenere sussistenti gli estremi del reato di sequestro di persona, punito dal codice più severamente, ha riconosciuto l'esistenza del reato di sottrazione di minore, nella forma tentata;
le nomadi si sono difese negando di aver voluto prendere il bambino, ciò nonostante hanno patteggiato la pena, ottenendo, con le attenuanti, una condanna a soli otto mesi di reclusione per tentata sottrazione di minore e sono state immediatamente scarcerate a seguito della sospensione condizionale della pena;
desta sconcerto una decisione che dopo poche ore rimette in libertà persone che stavano per compiere un reato gravissimo;
questa sentenza rappresenta solo l'ultimo esempio di una serie di decisioni profondamente ingiuste, come la sentenza che ha condannato il killer di Rozzano a soli 20 anni per quattro omicidi e la sentenza che ha condannato Ruggero Jucker a 16 anni, per finire con la sentenza di Milano che ha scagionato i terroristi, definendoli guerriglieri -:
quali iniziative di riforma intenda presentare per evitare che possano essere adottate sentenze come quelle in oggetto e se, nel caso specifico, non ritenga opportuna una modifica legislativa diretta ad impedire l'applicazione del patteggiamento o di altri istituti, tali da comportare la sospensione condizionale della pena per reati gravi e di forte allarme sociale.»
In aula alla deputata Carolina Lussana rispondeva, nella seduta n. 583 del 9/2/2005, Carlo Giovanardi, allora ministro per i rapporti con il Parlamento:
«Signor Presidente, mi atterrò al caso specifico che è oggetto dell'interrogazione, perché gli altri casi citati ci porterebbero lontano, anche dal punto di vista della valutazione della modifica della legislazione.
Nel caso prospettato dall'interrogante, si è trattato di un tentativo di rapimento di una bambina di sette mesi nel centro di Lecco, che è stato qualificato come tentata sottrazione di persona incapace, fattispecie diversa da quella prevista dagli articoli 56 e 605 del codice penale, vale a dire il tentato sequestro di persona.
Il pubblico ministero e la difesa avrebbero, quindi, concordato l'applicazione di una pena di otto mesi di reclusione e la sospensione condizionale della medesima.
La decisione delle parti di proporre la derubricazione in una fattispecie di reato assai meno grave e quella del giudice di accettarla hanno, infine, prodotto una pena che è stata avvertita dall'opinione pubblica come troppo lieve e sproporzionata in rapporto al fatto acclarato in sé, ovvero il tentativo di rapimento di un bimbo da parte di soggetti ostili ed estranei alla famiglia.
Da questa decisione è conseguita anche la possibilità per il giudice di applicare la sospensione condizionale della pena, istituto che consente, in base alla prognosi che il condannato si asterrà in futuro dal commettere ulteriori reati, di sospendere la pena inflitta se essa non superi i due anni di reclusione. Va ribadito che i magistrati avevano tutti gli strumenti legislativi per punire il fatto in maniera adeguata alla pericolosità ed al danno avvertiti dalla società.
Ricordo anche che, ai sensi dell'articolo 448 del codice di procedura penale, il giudice aveva la possibilità di rifiutare il patteggiamento proposto dalle parti e procedere con il rito ordinario, accertando, in quella sede, la verità dei fatti. Ricordo, altresì, che era nella disponibilità del pubblico ministero elevare l'imputazione al tentato sequestro di persona, reato che, in astratto, prevede anche l'applicabilità della custodia cautelare.
Quindi, a mio avviso, ma anche ad avviso del ministro della giustizia, non si tratta di inadeguatezza delle leggi vigenti, in quanto i nostri codici prevedono già diversi strumenti per dare una risposta adeguata al fatto in questione, percepito dalla società come assai odioso e pericoloso, stante la natura delle vittime, le circostanze del fatto che ha riguardato una madre sola, con un bambino di pochi mesi.
A proposito del patteggiamento, va rilevato che esso è uno strumento giuridico previsto da moltissimi ordinamenti giuridici e ritenuto di grande efficacia per accorciare i tempi del processo penale, tempi che vengono percepiti come intollerabili dall'opinione pubblica.
Ricordo che, proprio a tal fine, il Parlamento, con legge n. 134 del 2003, ha innalzato, in maniera decisiva, il limite di pena entro il quale è possibile ricorrere alla pena concordata fra le parti. La norma lascia, tuttavia, in capo alla sensibilità del giudice il potere di accettare o respingere il patteggiamento in relazione alla gravità dei fatti.
Il ministro rispondente ritiene, pertanto, che la questione non stia nella carenza di legislazione, ma nella sua corretta applicazione, che non dovrebbe così dar luogo, come è oggettivamente accaduto, ad una così grande divaricazione fra la giustizia formale ed il senso di giustizia del comune sentire.
Il ministro non ritiene, altresì, utile legiferare sull'onda delle emozioni sollevate da fatti contingenti clamorosi, che portano quasi sempre ad una proliferazione legislativa disorganica e contraddittoria.»

Carolina Lussana ha replicato: «Si evidenzia, comunque, che chi tenta di strappare un bambino di soli sette mesi dalle braccia della madre, magari per utilizzarlo per l'accattonaggio in una strada o, peggio ancora, per venderlo a bande di trafficanti di bambini o di organi come merita di essere punito per la giustizia italiana? Merita nessuna pena. Merita addirittura di essere rimesso in libertà! E perché è potuto accadere tutto questo, come ha spiegato il ministro? Perché un pubblico ministero, cavillando con le leggi, ha definito quanto accaduto non un rapimento, come pensano tutti i milioni di cittadini che ci ascoltano, tutti gli italiani, ma come una semplice sottrazione di minore, reato che il nostro codice punisce in modo meno grave. Adesso basta! Siamo davvero indignati, in quanto con una decisione come questa è stato veramente superato il limite. Si tratta dell'ennesimo caso di una giustizia garantista nei confronti di chi i reati li commette e non nei confronti dei cittadini onesti che li subiscono. Le leggi ci sono, ma i magistrati le applicano non secondo il comune senso di giustizia, troppe volte dalla parte di Caino e non da quella di Abele. Nelle aule giudiziarie c'è scritto che la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano. Ebbene, siamo sicuri che, se gli italiani potessero entrare in quelle aule, non starebbero sicuramente a fianco di quei magistrati che incriminano i cittadini onesti solo perché hanno reagito contro dei malviventi, né di quei magistrati che hanno concesso - perché rientrava nella loro valutazione - gli arresti domiciliari al pluriomicida Giovanni Brusca, né di quei magistrati che rimettono in libertà terroristi definendoli semplicemente guerriglieri o ladri di bambini. A questo punto, signor ministro, riteniamo sia sempre più attuale la proposta della Lega Nord relativa all'elezione dei pubblici ministeri da parte del popolo, al quale poi dovranno rispondere. In tal modo, avremmo una giustizia vicina alla gente e dalla parte della gente.»
C’è poi il caso di Firenze dell’ottobre 2005, quando vi fu un tentativo di rapimento di un bimbo di cinque mesi da parte di due donne rom. La donna rom delle due accusata del presunto rapimento del bambino figlio di una coppia ligure fu stata fermata dalla Polizia Municipale, che poi la consegnò ai carabinieri. La vicenda ebbe anche aspetti inquietanti in quanto nella relazione della polizia municipale di Firenze, consegnata al magistrato, si ipotizzava che le due nomadi avrebbero cercato di rubare un braccialetto al piccolo, che si trovava sul passeggino e non di rapire il bambino. Una versione confutata dalla mamma del bambino, che più volte interrogata dai carabinieri aveva sempre sostenuto che le due rom volevano rapire il neonato. La donna aveva negato fermamente che il bambino avesse addosso braccialetti o altri monili, come aveva negato che sul passeggino potesse esserci qualche oggetto da rubare. Il gip accogliendo le richieste del pm Luca Turco, dava credito al racconto fatto ai carabinieri e convalidava l'arresto della nomade, che però veniva immediatamente scarcerata per mancanza di gravi indizi di pericolosità.
Terzo caso a Savona nel 2007 un tentato rapimento di un bambino sotto gli occhi della mamma, accaduta in C.so Tardy e Benech, che non si è realizzato solo grazie all’intervento generoso di una passante. Sull’episodio così si commenta in un comunicato stampa riportato il 4 marzo nel blog di Alessandro Parino, consigliere comunale di An a Savona: “Il fatto che la vittima sia stata una mamma Ecuadoriana non toglie nulla, anzi, accresce il senso di dolore per una persona vittima di una simile violenza in terra straniera; al tempo stesso dimostra come, mentre moltissimi stranieri a Savona siano perfettamente integrati, i nomadi continuino a porsi al di fuori della vita civile cittadina avendone invece in cambio i benefici del mantenimento delle spese del campi”.

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