lunedì 12 maggio 2008

Ieri e oggi

Nei giorni scorsi abbiamo assistito tutti al rapido insediamento del nuovo governo Berlusconi. Talmente rapido che Crozza ieri ci giocava, non sapendo come altrimenti prendere in giro il Cavaliere, sulla scrittura della lista dei ministri già nel primo colloquio con Napolitano. Quasi una sorta di rimpianto, la satira della “velocità”, dei vecchi modi e tempi d’un’antica età dell’oro per l’opposizione qual era quella della “prima repubblica”, dove il capo del governo era un parto difficile e macchinoso e dove proprio per la complessità della buona riuscita dell’evento si poteva giocare sugli equilibri cercando di strappare il strappabile. Ora, con un bipolarismo sostanziale e con un risultato elettorale schiacciante, non resta che bighellonare per qualche piazza, trastullarsi con le ombre, o ancora reinventarsi gappisti in televisione. Ma quale era il clima che si respirava allora durante la costruzione di un governo? Un corsivo del quotidiano comunista “il manifesto” di quei tempi c’è lo descrive ottimamente: leggiamolo e confrontiamo le situazioni, ieri ed oggi. Tutto quello che volete, ma dal confronto appare chiara una cosa: nonostante tutte le critiche possibili e giustificate sulla legge elettorale, il “popolo”, la gente che vota, ha oggi il potere reale di decidere da chi essere governata e per che cosa. E l’indicazione è stata precisa, piaccia o non piaccia a chi è rimasto fuori dal party o chi “invitato” è lì a far loquace tappezzeria. Il corsivo ha titolo “La noia” ed è del 14 giugno 1974, ai tempi della presidenza Leone.

«Scriviamo angosciati dal fatto che non sappiamo ancora se il presidente Leone sceglierà in serata il candidato alla formazione del nuovo governo, o se l’incarico sarà conferito oggi, e se sarà pieno o sarà esplorativo. Soffriamo di orari sfavorevoli e non solo di un numero limitato di pagine che ci vieta di pubblicare, come sarebbe essenziale, l’effige dell’on. Piccoli mentre bacia e contagia i corazzieri.
Ma soprattutto ci angoscia di non conoscere il nome del candidato, questa apparizione di una stella «nova», di un astro sconosciuto, di una creatura inconsueta, nel cielo grigio e statico della nostra politica ufficiale: se sarà Rumor o Fanfani, Piccoli o Andreotti, colombo o Moro, o magari Spagnolli. Che ricchezza, quella delle nostre istituzioni, che varietà, quella del nostro personale politico, che fantasia, quella della nostra classe dirigente di fronte agli umori della pubblica opinione. Questo balletto di personaggi pluriennali, tutti noiosi per nascita ma anche per istoria; che rosicchiano la nostra esistenza dalla culla alla tomba con la stessa ineluttabilità con cui i pidocchietti verdi tormentano le rose; così scontati nelle loro inclinazioni e nei loro vizi che non possono neppure più dire bugie perché le hanno dette già tutte; questo balletto è roba da far invidia alla quarta repubblica francese, che finì nella Senna.
Che emozione, se rumor rifacesse il governo: allora sì che il senso della crisi apparirebbe limpido alla nazione. E se lo facesse Colombo, allora sì che sarebbe logico dopo il successo del suo primo centro-sinistra, dal cui sopore infinito ci siamo risvegliati solo a suon di bombe e di inflazione. E l’on. Andreotti, chissà se si riporterebbe a palazzo Chigi le casse del Sifar? L’on. Moro, che da tanti anni percorre il sottosuolo ed è perfino colto, questa sì che sarebbe una rivoluzione: neanche a pensarci, nominarlo sarebbe un vertiginoso ritorno all’infanzia. E l’on. Piccoli, con l’
Adige alle spalle (la tiratura più alta dopo il giapponese Asaki) e la sua mania della carta, quale sovraccarico per i servizi di cancelleria dei ministeri! L’on. Spagnolli sì, ecco una personalità nuova e storicamente sperimentata: chi è quel magistrato silurato a roma, non si chiamava così, o è un cugino?
Oltre alla fantasia, quale senso dello stato ha questa truppa. Segretario politico del più grande “consorzio umano”, come una volta modestamente disse alludendo al suo partito, l’on. Fanfani ha una fifa matta e si esercita a evitare e dare sgambetti: ballando, gli ometti del regime si pestano furiosamente i calli di cui abbondano. Più compassato è il loro sorriso da Quirinale, più doloranti i loro stinchi. E più i loro propositi sono lontani, nonché dai bisogni del paese, anche dal senso di invincibile fastidio della gente.
Berlinguer sollecita “novità tangibili”. Ma anche solo la “rosa dei nomi”, che per la trentaseiesima volta rileggiamo in venticinque anni di fronte alla crisi di governo, è peggio della “rosa dei venti”. Questa mette le bombe, quella incarna una politica nefasta e senza vita. C’è poco da “tangere”, molto da mandarli al diavolo. Il giorno che non sarà più uno di questi democristiani a governarci per decreto del destino, neppure presidenziale, il paese potrà dire di avere almeno una facciata, non ancora una sostanza se non altro presentabile.»

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